Category Archives: label

CHI NON SI ANNOIA SOPRAVVIVE… GRAZIE ALLA MUSICA

Stahlwerk

Se in un momento difficile per l’umanità intera John McLaughlin ha donato generosamente agli ascoltatori la sua nuova fatica Is That So? per aiutare le persone a resistere a serrate e quarantene, sono numerosi i giovani colleghi che continuano a produrre musica nuova e a distribuirla sugli ormai consueti canali digitali. È il caso degli Stahlwerk, trio jazz elvetico formato dal pianista Dominic Stahl, dal bassista Francesco Rezzonico e dal batterista Tobias Schmid, che con l’omonimo album (Hout Records/Radio SFR2) abbracciano il silenzio di questi giorni regalando un lavoro solido, poetico e magistralmente registrato e mixato. Il più grande merito degli Stahlwerk è, infatti, essere riusciti a ricreare su disco, con l’aiuto di Andy Neresheimer, l’atmosfera di genuina complicità dello studio con tutte le sfumature e i colori dei suoni. E sono propio queste nuances a rendere le dodici tracce che compongono i quattro movimenti un assoluto momento di evasione. Jazz, classica e contemporanea sono un’unica cosa per queste ragazzi di grande talento. Alessandro Zannier in arte Ottodix, ritorna invece con Entanglement (Discipline Records) un lavoro che vuole esplorare a 360° il mondo che ci circonda: a cominciare dagli invisibili principi fisici che governano le vite di ogni essere vivente sul Pianeta per finire a con le gesta di personaggi storici come Cristoforo Colombo e Gengis Khan. Il brano ispirato ispirato al grande condottiero mongolo, il migliore momento dell’intera tracklist, suona molto à la Garbo ed apre finestre sulla globalizzazione e ricorda l’importanza delle istanze ecologiste. Nel mondo di oggi connesso (nel bene e nel male) e uploadato, l’artista, molto più di una divinità qualunque, ha ancora qualcosa da dire alla sua gente. (Matteo Ceschi)

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HANDSHAKE, AN ICE CREAM MAN ON THE MOON, URTOVOX 2020

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Giovani. Toscani, per l’esattezza fiorentini. E pazzi per i Pink Floyd. Così potrebbero scrivere sul biglietto da visita gli Handshake. Il trio formato da Giulio Vannuzzi, Lorenzo Burgio, Tommaso Giuliani sorprende sia per la naturalezza con cui si inserisce nella galassia del rock psichedelico sia per l’evidente voglia di aggiungere la propria visione ad una storia sonora ben radicata nell’immaginario collettivo e ricca di estimatori. Il lavoro è prodotto molto bene da Samuele Cangi e lo si sente fin dall’ascolto del singolo bold//brash finito nei radar della BBC Radio London: non ci sono “eccessi da studio” e tutto suona come dovrebbe suonare. La migliore qualità di An Ice Cream Man on the Moon è la compostezza sonora capace di contenere le sfumature creative del credo psichedelico senza mai scadere nella sterile esaltazione del genere – una conferma viene da Promises, traccia accattivante con le sue atmosfere oniriche stile Kula Shaker. Unica nota dolente la copertina dell’album: anti-estetica e lontana anni luce dalle accattivanti grafiche che hanno accompagnato l’epopea psych. (Matteo Ceschi)

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FOSCARI, I GIORNI DEL RINOCERONTE, LA CHIMERA DISCHI/TERRE SOMMERSE 2018

Foscari

L’attacco di Particelle, prima track del disco, parte con vaghi richiami agli Smashing Pumpkins per poi aprirsi gioiosamente una finestra sul mondo pop che molto, e dico molto, deve a quel genio che risponde al nome di Cesare Cremonini. Detto questo il disco di Marco Foscari non lascia così facilmente quella radice rock che evidentemente rappresenta una parte importante della formazione del suo autore: Trasparente ne è un ottimo esempio con la chitarra elettrica di Davide Sparpaglia a sostenerne le idee più audaci. Poi, quando meno te lo aspetti, sul finire del disco, arrivano un paio di canzoni “ibride” dall’atmosfera intimista che mantengono alto l’interesse dell’ascoltatore fino all’ultimo secondo: Eliot con le sue pennellate elettriche strizza l’occhio a Samuele Bersani mentre Te lo confesso si perde placidamente tra un ricordo beatlesiano e improvvisazioni vocali à la Pino Daniele. (Matteo Ceschi)

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CHRYSTA BELL, WE DISSOLVE, AWAL/KOBALTMusic REC 2017

Si torna indietro nei nebbiosi e uggiosi anni Novanta con We Dissolve di Chrysta Bell, artista poliedrica che può vantare un estimatore come il regista David Lynch che l’ha voluta a recitare nella nuova e attesissima serie di Twin Peaks dopo numerosi progetti discografici realizzati in tandem. Lo si intuisce già da Heaven, prima traccia del disco, che non lascia dubbio a riguardo e se ne ha la certezza scorrendo velocemente i nomi di alcune guest: il produttore John Parish e, scusate se è poco, Adrian Utley dei Portishead. Il sound è quello di un pop votato alla contaminazione che cerca il “guizzo assassino” nell’incerto equilibrio del jazz e nella fredde certezze dell’elettronica. Gravity, il singolo che anticipa l’album e che certo non passerà inosservato, possiede nella sua anima “artificiale” il calore della musica da camera. Planet Wide, così lasciva e imprevedibile nella sua aggressività sonora, non ha mai smesso di piacermi fin dal primo istante in cui vi ho posato sopra orecchio. Detto ciò, non grido certo al miracolo anche se sono conscio di avere in cuffia un album solido e ben realizzato che non manca certo di un paio di acuminate frecce per trapassare il muro dell’indifferenza sonora che, ahimè, troppo spesso ci circonda e ci rende pigri di fronte all’esplorazione sonora. (Matteo Ceschi)

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BOL&SNAH, SO?NOW?, GIGAFON RECORDS 2016

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Titolo enigmatico al limite della grafica esasperata per il progetto che vede insieme Hans Magnus “Snah” Ryan, chitarrista dei Motorpsycho e il trio norvegese prog-rock BOL composto da Tone Åse, Ståle Storløkken e Tor Haugerud. Rompendo ogni indugio, annuncio che il risultato è poetico e potente al tempo stesso, ricco, sembrerà strano vista la nazionalità dei protagonisti, di passione e passionalità. The Sidewalks, brano d’apertura, sposa alla perfezione la voce di Tone Åse, a tratti vicina alla vivacità di Kate Bush, con il wall of sound dei suoi compagni regalando l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo. Per la forma e gli arrangiamenti i sei brani più che al rock guardano alla scena free jazz, proponendo un’infinita sequenza di mood, suggerimenti melodici e ritmi incalzanti: #tahtfeeling, forse è la traccia che meglio rappresenta le intenzioni serie e battagliere dei BOL&SNAH. Un album per tutti quelli che dimostrano di possedere il coraggio e la volontà di cambiare: se ci fosse mai un equilibrio tra uomo e natura, forse lo si potrebbe trovare tra i solchi di SO?NOW? (Matteo Ceschi)

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CIRCOLO LEHMANN, DOVE NASCONO LE BALENE, LIBELLULA/AUDIOGLOBE 2016

Circolo-Lehmann

Se una band ti fa sobbalzare, qualunque sia il suo nome, la sua provenienza e il genere suonato, è dovere di un critico degno di questo nome correre a segnalarla al suo pubblico. Detto e fatto! Dove nascono le balene, incredibile opera del Circolo Lehmann, ensemble letterario-musicale nato nel 2011, possiede davvero tutte le carte in regola per spingere il nome dei suoi creatori lontano dalla soffocanti gabbie provinciali dell’Italia indecisa a darsi un volto serio e a votare all’unanimità la sua maggiore età. Questa sana volontà a volere emergere e a gridare “Io ci sono!”, la si sente forte fin dalle prime battute e quasi obbligatoriamente spinge chi scrive (e magari anche chi ascolterà) a cercare altrove, lontano dai nostrani lidi, riferimenti utili per una più chiara lettura del lavoro. Dalla matrice tardo psichedelica à la Julian Cope emergono qua e là orecchiabili richiami ai Prefab Sprout (Niente di nuovo) ed altri più duri in stile Motorpshyco (La nostra guerra). Intendiamoci il Circolo Lehmann deve molto anche alla tradizioni dei grandi interpreti italiani, a cominciare da Battisti e Branduardi, ma qualunque siano i riferimenti che ognuno può trovare in Dove nascono le balene, ovunque l’orecchio si posi c’è il conforto di un’originalità oggi molto difficile da trovare. Io la mia parte l’ho fatta, ora tocca a voi! (Matteo Ceschi)

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JOHN HOLLAND EXPERIENCE, JOHN HOLLAND EXPERIENCE, DREAMINGORILLA REC/TAXI DRIVER REC 2016

Cover John Holland Experience

Si fanno annunciare da un’ondata di garage blues così tirato che non vi lascerà via di scampo. I cuneesi John Holland Experience con l’omonimo album arricchiscono il consolidato sound dei Sonics con escursioni furibonde verso il desert rock à la QSTA e ci riescono non solo mantenendo intatto lo spirito pionieristico dei due generi appena citati ma riuscendo pure a fare sentire la propria voce al di sopra del wall of sound. Brani come Elicottero o Canzone d’amore sembrano abbracciare la filosofia del pulp e ammiccare, con la certezza di piacere al pubblico, a certo hard rock tedesco contemporaneo. Nel complesso il lavoro del power trio – formato da Alex Denina, Simone Calvo e Francesco Martinat – suona con una freschezza che ormai è raro trovare in un disco e che ne farà, ci metto volentieri la faccia, uno dei nomi di punta del rock italiano del 2016. P.S. Splendida e invitante la copertina stile Robert Rodriguez di SoloMacello. (Matteo Ceschi)

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ULAN BATOR, ABRACADABRA, OVERDRIVE/ACID COBRA/GOODFELLAS 2016

Ulan Bator

Se qualcuno mi chiedesse ora di consigliare un disco rock, la mia scelta sarebbe fulminea e senza esitazione: Abracadabra degli Ulan Bator. Si è trattato, e lo spero lo sarà per voi, di una questione di pelle. Mi sono bastati pochi secondi per convincermi di quanto ora vi sto sinceramente raccontando. Chaos apre le danze con la voce sciamanica di Amaury Cambuzat a guidare nuove e vecchie schiere di rockers stanche di promesse mai mantenute. Il sound è cupo, granitico ma sa mantenere una vena poetica essenziale per arrivare dritto al cuore. Essenziale, appunto, ma anche esistenziale ed esistenzialista la nuova creatura degli Ulan Bator. Di fronte a quest’opera c’è il rischio di perdersi, ma è un pericolo che si corre serenamente consapevoli che Cambuzat e soci (Ceccotti, Johnston e Mastrisciano) possiedono e hanno fatto intrinsecamente proprio il coraggio di ripercorrere la storia per dimostrare al pubblico una via di fuga dai cliché. L’ossessione sonora di Coeurreida è un manifesto d’intenti rivoluzionari che troverà in tutti voi convinti sostenitori e divulgatori. Con Abracadabra il rock torna finalmente a sanguinare e a vivere. (Matteo Ceschi)

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BIAGIO COPPA, 23:54 – GET MOVING, NO FLIGHT RECORDS 2015

Biagio Coppa

Un disco notturno fin dal titolo, 23:54 – Get Moving, e questo per non creare equivoci ancora prima di schiacciare il tasto PLAY. Registrato in soli due giorni sotto la supervisione di Bennet Paster a New York, il lavoro del sassofonista Biagio Coppa fin dalle prime battute impone precisi ritmi alla notte dell’ascoltatore portandolo a vivere le suggestioni della Grande Mela degli anni Settanta: il jazz si sporca di funk grazie al groove prodotto dal Fender Rhodes di Aruán Ortiz e dalla batteria di Rob Garcia per poi tornare sornione come un gatto a rovistare nei vicoli più scuri delle blue notes. Tutte le sei composizioni della tracklist, a cominciare dall’apripista Agosto, contribuiscono ad allungare un immaginario elastico culturale che permette al musicista ma anche al pubblico di assaporare le gioie di un passato decisamente futuro. Con la penultima traccia, CYN, tutto diventa più chiaro con l’approssimarsi del giorno: Coppa, l’italianissimo Biagio Coppa, è riuscito a fondere in poco meno di un’ora la sua visione del jazz con quella di maestri del calibro di Miles Davis e Herbie Hancock. Giudicate voi se è poco? E scusatemi per il ritardo con cui ve lo segnalo. (Matteo Ceschi)

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OLGA BELL, INCITATION, ONE LITTLE INDIAN RECORDS 2015

Incitation

Se si volesse cercare un paragone facile ad uso e consumo della grande distribuzione potremmo dire che Olga Bell ricorda per molti aspetti la Björk delle origini. Poi approfondendo la conoscenza di Incitation si arriverà ad apprezzarne l’originalità sbarazzina e insofferente. La Bell – origini moscovite e radici in Alaska e nella Grande Mela – infatti, sembra fin dalle prime battute volere affermare la propria individualità allontanandosi in un solo colpo dai già citati paragoni e dall’esperienza con i Dirty Projectors. L’appuntamento con il secondo album non brucia le tappe e risulta quello che dovrebbe essere: maturo ma al contempo ancora carico di quell’acerba voglia di dimostrare tutto al mondo. L’EP, cinque tracce, vive, pulsa e sanguina intorno a Pounder, episodio I e II: un’elettronica colta, che ricorda un po’ John Carpenter, si insinua in profondità nei sentimenti di Olga amplificandone la resa e l’impatto sul pubblico e lasciando nell’ascoltatore una sincera voglia di ricominciare daccapo l’esperienza sonora. I due pezzi sebbene eclettici nelle scelte ritmiche possiedono tutti i numeri per vincere le resistenze dei dj e diventare dei club killer. Solo lasciandovi andare alle atmosfere sintetiche e un po’ dark di Incitation, le vostre giornate potranno finalmente raggiungere quelle sfumature “hipster” che da troppo tempo rincorrevate con insuccesso. (Matteo Ceschi)

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