Category Archives: US Independent Music

SUDAN ARCHIVES, ATHENA, STONES THROW 2019

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Era dai tempi dei Massive Attack e di Erykah Badu che non mi capitava di mettere orecchio su un prodotto musicale così fresco e votato al futuro. La statunitense Sudan Archives con Athena non solo porta una ventata di innovazione nel panorama pretenziosamente hipster della black music degli ultimi anni, ma spinge il genere – e più in generale l’intrattenimento sonoro – verso una ritrovata consapevolezza nei propri mezzi. Down On Me, non solo invita le nostre voglie musicali a palesarsi e a sbirciare al di là delle mode ma riallaccia concretamente il confronto tra artista e pubblico. La scelta del violino – che Sudan Archives condivide, ad esempio, con jazzisti del calibro di Ben Williams e Ambrose Akinmusire – solo apparentemente scoraggia l’ascolto: in realtà l’uso sapiente dello strumento reso celebre da Vivaldi (doveroso citare Black Vivaldi Sonata) regala ad ognuna delle composizioni dell’album un tocco etereo sufficientemente distante per fare viaggiare la mente di chi si mette in ascolto. Così la libertà d’espressione dell’artista si sovrappone quasi perfettamente a quella del pubblico rompendo ogni schematismo discografico. Athena è l’album che in molti aspettavano di aver tra le mani da tempo… Forse non tutto è perduto… (Matteo Ceschi)

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KISHI BASHI, OMOIYARI, JOYFUL NOISE 2019

Le sonorità accattivanti di Omoiyari non vi devono ingannare: c’è della protesta dietro tanta grazia, c’è dolore, c’è un percorso umano e storico che ha ormai assolto la storia, ma non la dimentica. Americano figlio di immigrati giapponesi, Kaoru Ishibashi – in arte Kishi Bashi – riflette in questo suo quarto album sul terribile episodio dell’internamento di oltre 110 mila nippo-americani in campi di prigionia statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale. “Non volevo che questo progetto parlasse di storia, ma piuttosto dell’importanza della storia, delle lezioni che possiamo ricavarne”, ha dichiarato l’artista, che infatti incentra le sue canzoni non tanto su una denuncia esplicita, ma piuttosto su vicende individuali (la madre di Theme for Jerome (Forgotten Words), il giovane di Summer of ’42) o su relazioni (A song for you, per esempio, che con delicatezza tocca il tema della separazione e della lenta erosione della memoria). Non è difficile, tuttavia, intravedere dietro a tutto ciò anche continui riferimenti all’attuale amministrazione americana, le sue ansie xenofobe, i suoi muri, che anzi di fatto hanno avuto la funzione di vero e proprio input per questo album. E del resto pur essendo ispirato ad una vicenda storica particolare, avvenuta negli anni ’40, Omoiyari convoglia un messaggio che non ha tempo, a partire proprio dal titolo: si tratta infatti di una parola giapponese dal significato complesso che ruota attorno a quella che per noi è l’empatia, la comprensione degli altri, la compassione, il pensare agli altri, insomma una disposizione umana che per Kishi Bashi è l’unico modo per superare conflitti, xenofobia, intolleranza, paura. Musicalmente parlando Omoiyari è frutto di una scrittura solida ed elaborata, fatta di stratificazioni minuziose e sovrapposizioni delicatissime di voci e strumenti, che la produzione (più sobria rispetto ai lavori precedenti) mette in risalto in maniera pulitissima. Il violino resta lo strumento prediletto da Bashi, che qui abbandona certi virtuosismi a favore di una musica che suona più sobria, sincera, a cuore aperto. Lo stile, certo, resta quello di un pop sempre leggermente sopra le righe (“barocco” nei precedenti album), lussuoso e raffinato, ma meno appariscente ed ostentato. Omoiyari è un lavoro godibilissimo ma non a cuor leggero, perché anche il pop sa parlare di cose serie. (Elisa Giovanatti)

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50 ANNI DI “KICK OUT THE JAMS!”

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Dopo due interviste (una via mail e una via Skype, quest’ultima per il mio libro Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta), finalmente riesco a spuntare dalla lunga lista delle “cose da fare nella vita” l’incontro con Wayne Kramer, membro fondatore degli MC5, storica band del Midwest legata al gruppo radical White Panther Party di John Sinclair. L’attesa, ci premo fin da subito a dirlo, è valsa la pena. In tour con un gruppo di affiatati amici (Kim Thayil dei Soundgarden; Marcus Durant dei Zen Guerrilla; Brendan Canty dei Fugazi; e Billy Gould dei Faith No More), Wayne Kramer sta portando in giro per gli States e per l’Europa l’album Kick Out the Jams, registrato nell’ottobre del 1968 alla Grande Ballroom di Detroit. L’occasione di celebrare il cinquantesimo anniversario della storica incisione per la Elektra fornisce al sempre militante Brother Wayne la buona scusa per alimentare nel pubblico la voglia di opporsi alle brutture e alle ingiustizie dell’attualità A guidarlo e a guidare i fans allora come oggi c’è la musica, quella più sana, sincera e, lasciatemelo sottolineare, indipendente: <La creatività e l’arte hanno sempre provocato forme di Resistenza e continueranno a farlo.>

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Il concerto punta tutto sulla tracklist di Kick Out the Jams ma non fa mancare agli ascoltatori anche altri brani del repertorio degli MC5. Musicalmente, mi sento tranquillo nel dirlo, la formazione sul palco dell’Alcatraz di Milano suona decisamente all’altezza di quella originaria e a tratti quasi pare mettere la freccia e sorpassare la line-up sessantottina: in questo, senso, Kim Thayil non fa rimpiangere Fred Sonic Smith e la sezione ritmica quasi sempre suona più massiccia e arrabbiata di quella dei tardi Sixties. Un discorso a parte, non me ne vogliano i puristi, va fatto per quel gigante di Marcus Durant, la cui voce pare non temere nulla né dal passato né dal futuro come ben si intuisce da Let Me Try uno dei brani del bis. Un concerto intenso, seppure non lunghissimo, per un pubblico attento e preparato. Poco importano i numeri, in questo caso. Immancabile, alla fine della performance l’incontro con Wayne e la consegna di una copia del mio Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta tra sinceri abbracci di chi ancora crede di cambiare le cose e scambi di battute militanti. Insomma, una serata in perfetto stile <Kick Out the Jams… Motherfuckers!> (Matteo Ceschi)

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ALTOPALO, FROZENTHERE, SAMEDI 2018

Dopo un EP che prediligeva sonorità funk ed indie rock, arriva per questo giovane quartetto newyorkese il primo album vero e proprio, e con esso un bel salto di qualità. Si comincia con Blur e Mono, e subito i fan di James Blake vi ritroveranno alcuni degli aspetti della prima e più sperimentale produzione del britannico. Album ricchissimo di un fascino che si svela poco a poco, Frozenthere procede lentamente, come è giusto che sia per un lavoro che parla del disagio con cui viviamo la nostra dipendenza dalla tecnologia, dell’ansia con cui cerchiamo riscontri digitali (like, retweet…) pur consapevoli che la nostra serenità sarebbe da cercare altrove. La bravura degli Altopalo sta proprio in questa lentezza, perché ci cattura. Frozenthere ci costringe all’attenzione, fa venire voglia di prendersi più tempo, alzare il volume, soffermarsi, tornare indietro a riascoltare, cercare di capire ogni dettaglio. È, in effetti, un lavoro molto raffinato, costruito su più livelli, in cui il fiorire di ogni dettaglio è una lenta scoperta. Su ambienti elettronici in blanda pulsazione si innestano motivi funk, soul e rock perfettamente calibrati, che vengono poi riassorbiti fra le pieghe elettroniche in un risultato d’insieme che può stupire e anche disorientare, così come spesso disorienta l’utilizzo della voce di Rahm Silverglade, portatrice di parole ora impercettibili, ora distorte, ora nascoste in un brulicare di dettagli sonori di cui la voce è solo uno dei tanti elementi. Emblematica da questo punto di vista la titletrack (ma anche Frozen away, che la precede). Dopo (Head in a) Cloche, uno dei pezzi più orecchiabili del disco, arriva Pulp, uno squarcio profondo, una sofferta meditazione di grandissimo impatto. Glow e Terra, che esplora le frustrazioni e il senso di inferiorità a cui possono portare i social media (“Scroll down to the picture lost in a feed”, “Scroll down, countin’ thumbs, still dreamin’ of the hearts you hold”), chiudono in bellezza un lavoro consigliatissimo. (Elisa Giovanatti)

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ANI DIFRANCO, BINARY, RIGHTEOUS BABE/AVELIN REC. 2017

 

Ani, Milano, early July 2017 72
Molta acqua sotto il ponte è fluita. Il flusso di note ha con il tempo smussato gli spigoli del sound di Ani DiFranco portando l’esuberanza e l’irruenza giovanile (sulla chitarra) a un più mite rapporto di coesistenza sonora con il mondo. Così Binary suona, e non potrebbe essere altrimenti, più soft e controllato, quasi a ritmo di un nu-soul alla Erykah Badu. Nel complesso l’album, ricco di partecipazioni di colleghi amici, procede senza fare una grinza ed è, forse, proprio questo preciso aspetto a lasciare al fan della prima ora (per intenderci uno di quelli del 1990) il palato un po’ asciutto: se in Pacifist’s Lament confesso almeno di ritrovarmi in parte, il resto della tracklist, lascia forte il rimpianto di quello che è stato. Non siamo neanche lontanamente vicini all’omonimo album d’esordio o al più recente, si fa per dire, e jazzato Canon. Senza farne una colpa ad Ani, la speranza è che la parentesi di introspezione adulta di Binary presto ceda nuovamente il passo ad un’anarchica volontà di urlare i propri sentimenti senza badare troppo alla forma. (Matteo Ceschi)
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ALGIERS, THE UNDERSIDE OF POWER, MATADOR 2017 + LIVE REPORT

Può essere molto scomodo, disturbante, mettersi all’ascolto di The Underside Of Power: c’è una tale ferocia nei temi trattati e nella loro forma sonora, un tale radicamento nelle insopportabili tragedie di ogni giorno, una tale densità di riferimenti letterari e musicali, da richiedere, di tanto in tanto, una pausa; soprattutto, l’ascolto di The Underside Of Power è colmo del disagio di chi, a 2 anni di distanza dal bellissimo esordio, è costretto a fare i conti con il fatto che troppo poco è cambiato nel sistemico e persistente razzismo americano (forse non solo americano), ragione per cui una band come gli Algiers è oggi ancora più rilevante, attuale e necessaria di 2 anni fa. La scorsa settimana, per dirne una, è apparso sui media un ultimo video dell’uccisione di Philando Castile, giovane uomo di colore seduto in auto accanto alla compagna, col la figlia di 4 anni sul sedile posteriore, da parte di un agente che è appena stato assolto da ogni capo di imputazione…

Si entra subito nel clima con una tesissima Walk Like A Panther, che inizia col campionamento di un discorso di Fred Hampton (attivista delle Pantere Nere ucciso nel ’69) e l’urlo di Franklin James Fisher, voce bellissima e potente che smussa alcuni degli angoli della musica degli Algiers e fa da collante in uno scenario sonoro fatto di sperimentazioni post-punk, sequenze digitali, ritmi potenti, distorsioni, saturazioni. È una musica cupa e abrasiva quella degli Algiers, che tiene insieme influenze apparentemente inconciliabili, una sorta di post-punk intriso di tradizione soul-funk e gospel afroamericana, su cui aleggia sempre una specie di inquieto presentimento (Cry Of The Martyrs, Death March). Stupisce, da questo punto di vista, la titletrack, violenta denuncia che in tutta questa oscurità inserisce però un ritornello Motown musicalmente solare e saltellante, straniante eppure davvero ben riuscito. Intelligenti e sinceri come pochi altri artisti, gli Algiers non fanno sermoni: gridano rabbia e dolore, condannano, denunciano, ma non guardano dall’alto in basso. Le loro sono parole di chi vive la vita di tutti i giorni come chiunque altro, come potrebbe viverla uno qualsiasi dei loro ascoltatori: proprio qui sta la forza inclusiva delle loro canzoni, capaci di coinvolgere più di qualsiasi altro discorso politico. Per chi volesse una prova basta ascoltare Cleveland, uno dei vertici dell’album, pezzo potentissimo che fa nomi e cognomi di una serie di neri uccisi dalla polizia americana (a partire dal dodicenne Tamir Rice), un brano in cui le eredità gospel sopravvivono per chiedere però giustizia e cambiamento oggi, su questa terra, non in un mondo ultraterreno.

Il quadro, insomma, è molto buio, eppure The Underside Of Power non nasconde elementi di speranza, che prendono la forma di una chiamata alle armi, dell’invito allo sviluppo di forme di impegno, senza cedere a una più facile apatia o a un pur comprensibile scoramento. Lo sa bene chi ha potuto assistere due sere fa al live degli Algiers a Milano (Santeria Social Club, non l’apertura a San Siro per i Depeche Mode, che gli Algiers stanno accompagnando nel tour europeo): in un contesto intimo, raccolto, il quartetto ha sprigionato un’energia impressionante, presentando il nuovo lavoro – da ricordare almeno anche una super intensa Mme Rieux – e regalando qualche pezzo del precedente (una bellissima Black Eunuch, che conserva l’eco delle work song tanto care a Lomax, e in chiusura una Games da brividi, per dirne solo un paio). Una band necessaria, un album che si candida ad essere tra i migliori del 2017. (Elisa Giovanatti)

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CHRYSTA BELL, WE DISSOLVE, AWAL/KOBALTMusic REC 2017

Si torna indietro nei nebbiosi e uggiosi anni Novanta con We Dissolve di Chrysta Bell, artista poliedrica che può vantare un estimatore come il regista David Lynch che l’ha voluta a recitare nella nuova e attesissima serie di Twin Peaks dopo numerosi progetti discografici realizzati in tandem. Lo si intuisce già da Heaven, prima traccia del disco, che non lascia dubbio a riguardo e se ne ha la certezza scorrendo velocemente i nomi di alcune guest: il produttore John Parish e, scusate se è poco, Adrian Utley dei Portishead. Il sound è quello di un pop votato alla contaminazione che cerca il “guizzo assassino” nell’incerto equilibrio del jazz e nella fredde certezze dell’elettronica. Gravity, il singolo che anticipa l’album e che certo non passerà inosservato, possiede nella sua anima “artificiale” il calore della musica da camera. Planet Wide, così lasciva e imprevedibile nella sua aggressività sonora, non ha mai smesso di piacermi fin dal primo istante in cui vi ho posato sopra orecchio. Detto ciò, non grido certo al miracolo anche se sono conscio di avere in cuffia un album solido e ben realizzato che non manca certo di un paio di acuminate frecce per trapassare il muro dell’indifferenza sonora che, ahimè, troppo spesso ci circonda e ci rende pigri di fronte all’esplorazione sonora. (Matteo Ceschi)

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NICHOLAS BRITELL, MOONLIGHT (ORIGINAL MOTION PICTURE SOUNDTRACK), LAKESHORE RECORDS 2016

Racconto di formazione, storia di una travagliata ricerca di identità (sociale e sessuale), Moonlight è un bellissimo film che racconta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta di Chiron, ragazzo nero cresciuto in un sobborgo difficile di Miami, che cerca faticosamente di trovare il suo posto nel mondo. Figlio di una madre tossica, escluso e perseguitato da compagni crudeli, accolto dallo spacciatore Juan e dalla sua fidanzata, Chiron cresce rifugiandosi prima nel mutismo e poi (da adulto) in una corazza di muscoli, tenendo dentro una silenziosa diversità che non sa esprimere in un contesto che ritiene ostile, un mondo da cui si difende in una difesa che somiglia tanto a una rinuncia. Taciturno, solitario, intrappolato in se stesso, Chiron è un personaggio imploso (salvo cedere ad un’esplosione violenta, forse liberatoria, sicuramente dannosa per sé), la cui vulnerabilità viene raccontata con tocco lieve e lirico dalla regia di Barry Jenkins, che piuttosto che rifugiarsi in facili cliché lascia che il suo protagonista si ripieghi su se stesso e fa parlare i corpi (le luci che li illuminano, gli sguardi, il cibo, il contatto fisico) e la musica. In un ritmo lento, che oggi verrebbe da definire anacronistico e che però è il passo delle emozioni più profonde e del loro lavorio, i microepisodi che compongono il racconto di Moonlight affidano alla fisicità degli attori (in particolare i tre che interpretano il protagonista bambino, adolescente e adulto, Little, Chiron e Black) e ancora di più alla pervasività della musica una comunicazione più diretta e più potente di qualsiasi parola. Laddove Chiron ammutolisce e si sottrae la musica è strabordante, e non in senso riempitivo: forza la struttura del film per far dilagare l’emozione, diventa linguaggio di verità dove non si trovano le parole, fa da valvola di sfogo quando l’emozione è troppo grande da contenere. Potevamo aspettarci un pieno di rap e hip-hop, e invece abbiamo di tutto, dalla blaxploitation anni ’70 a Mozart, da Jidenna alle composizioni originali di Nicholas Britell. Proprio nella partitura di Britell troviamo il cuore e l’anima della musica di Moonlight, il tema che identifica il protagonista, un brevissimo motivo delicato e dolente che si presenta in tre varianti: pochi rintocchi di pianoforte bastano per Little, una minima variazione di intonazione rende il tema di Chiron più pieno e un pochino più triste, ancora più vibrante e grondante malinconia è quello di Black, ma chissà se in tutto quel vibrare non ci sia anche della speranza.

Un altro tema importante è The Middle Of The World, che accompagna una scena fondamentale, quella in cui Juan insegna a nuotare al piccolo Chiron: una fantasia di violini molto efficace, intrisa di un certo senso di transitorietà, come del resto i tanti brevi momenti, effimeri, che compongono la partitura di Britell.

A catapultarci nell’ambiente in cui vive Chiron è però Every N****r Is A Star di Boris Gardiner, canzone che sentiamo nella primissima scena del film: è un pezzo tratto da un film blaxploitation degli anni ’70, recentemente ripreso da Kendrick Lamar, che in un miscuglio di solitudine, senso di esclusione, rabbia, questione razziale, ma anche calore e speranza, stabilisce brillantemente il contesto interno ed esterno in cui si svolgerà la vicenda. È la prima di una serie di musiche non originali utilizzate in Moonlight, con scelte che passano dal Laudate Dominum di Mozart (Vesperae Solennes De Confessore, K339) che accompagna i ragazzini che giocano a pallone a Hello Stranger, hit del ’63 di Barbara Lewis che avvolge l’importantissimo re-incontro con Kevin (amico d’infanzia, primo e unico amore, unica occasione di conoscenza e riconoscimento nello sguardo dell’altro da parte di Chiron), fino a Cucurrucucu Paloma di Caetano Veloso (dichiarato omaggio a Happy Together di Wong Kar-wai) durante il viaggio in macchina di Black. Proprio nell’ambiente chiuso della macchina Black, ormai a sua volta muscoloso spacciatore, fa sfoggio di ascolti hip-hop (Cell Therapy di Goodie Mob e Classic Man di Jidenna) che sembrano voler proiettare, per se stesso e per gli altri, un’idea ipermascolina dell’essere uomo e dell’essere nero.

Da notare in particolare la versione “chopped and screwed” di Classic Man: si tratta di una tecnica di remixaggio, tipica del rap del Sud degli USA, che rallenta la versione originale, ne varia (abbassandola) l’intonazione, e aggiunge spesso qualche ulteriore distorsione che crea atmosfere completamente nuove. Nicholas Britell la utilizza addirittura per il tema di Chiron, che compare anche in una efficacissima versione chopped and screwed. Tornando alla scena qui sopra, un pezzo trendy come quello di Jidenna diventa qui più duro, nelle intenzioni di Chiron, che forse tuttavia mentre crede di fare una cosa ne sta facendo un’altra, come suggerisce lo stesso Jenkins in un’intervista a Pitchfork: rallentare fa sì che le emozioni si mostrino in tutta la loro potenza, rivela sensibilità e pulsioni che diversamente non si notano, espone Black – che pure alza il volume, per sfuggire a una domanda di Kevin – in tutta la sua vulnerabilità. Il cuore di Chiron è pieno di amore, pieno di dolore, e diviso tra i due. Di quell’amore si porta però dietro la possibilità: “tu sei l’unico che mi abbia mai toccato”, dice alla fine Chiron a Kevin, ed è una dichiarazione d’amore, nel nome di quel contatto, l’incontro con l’altro, per cui si può anche attendere una vita intera. (Elisa Giovanatti)

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PAVO PAVO, YOUNG NARRATOR IN THE BREAKERS, BELLA UNION/PIAS 2016

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Interessantissimo debutto per i newyorkesi Pavo Pavo, talentuoso quintetto nato tra le mura di Yale, dove tutti i componenti hanno studiato musica (guadagnandosi anche qualche collaborazione importante, vedi John Zorn), e si sente: l’inventiva, la facilità del songwriting, la complessità e maturità del lavoro effettuato in studio (sovraincisioni, utilizzo di strumenti vintage, innumerevoli interventi di alto artigianato musicale)  sono sorprendenti, e sfociano in un album che porta alla mente artisti fra loro lontanissimi – il genio di Brian Wilson che aleggia, i vocalismi dei Grizzly Bear, il glam rock degli Sparks e tantissimo altro ancora – ma che, in maniera altrettanto evidente, è molto più della somma delle loro influenze. Tra sperimentazione e pop, Young narrator in the breakers sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione e regala una fortissima impronta personale. Pezzi freschi, ritmati, scintillanti (Ran, ran, run, 2020, We’ll have nothing going on), oppure dolci e lirici (Somewhere in Iowa, Wiserway), oppure squarci di pura inventiva (Belle of the ball, John (A little time)), raccontano la magia e il panico del passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, ed il senso di perdita e di malinconia che accompagna questo passaggio. Quello che è sicuro è che in questo disco si fluttua e ci si perde ad ammirare la leggerezza di una musica eccezionalmente ben fatta. (Elisa Giovanatti)

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JOSEPH PARSONS: QUANDO IL ROCK NON DIMENTICA LE SUE ORIGINI

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Ce la siamo presa comoda, ma finalmente torna INDIANA MUSIC MAGAZINE! La cover story, prima di tutto: protagonista del numero è Joseph Parsons, artista statunitense e per la verità cittadino del mondo, fra i padri della scena emo-folk-rock di Filadelfia, che ha recentemente pubblicato il bellissimo doppio album The Field/The Forest. Con una seconda intervista, quella a Carla Zerbi (Rouge Promozione Musicale), abbiamo cercato invece di andare incontro alle vostre curiosità sulle diverse professionalità coinvolte nella filiera discografica, approfondendo qui il lavoro di promozione grazie allo sguardo attento dell’intervistata. Molto ricca anche la sezione recensioni, con Francesco Di Bella, Mother Island, Hello Shark e Piers Faccini. Cliccate sulla copertina e passate un Halloween da indiani!

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