Tag Archives: alternative pop

HOLBROOK, ALIENS, 2023

Anticipato dal video dalle atmosfere a tratti allucinate e post-realiste di Nari Nari, brano che sembra strizzare l’occhio da una parte a Damon Albarn e dall’altro ai classici dei Depeche Mode, esce il nuovo EP dei francesi Holbrook.
Quattro brani per ribadire nel mondo post-pandemico che c’è ancora molto bisogno di musica e occasioni di incontro. Lontani dalla polvere del tempo capace solo di incattivire le persone al bistrot, il trio di multi-strumentisti parigini si agita tra un post-punk morbido e sapienti escursioni indie rock spingendo lo sguardo curioso dell’arte verso gli spazi in ombra della contemporaneità. Borders e Fantasy, il più interessante momento del lavoro con i suoi passaggi narrativi-ritmici, esplicano al meglio questa volontà di abbandonare convenzioni e mode e di suonare sinceramente e decisamente pop(ular). Lo sguardo acuto degli Holbrook è al tempo stesso umano e alieno – ecco una possibile spiegazione del titolo – nella speranza di recuperare e rivalutare quello che nel frattempo è sfuggito per noia e disattenzione alle persone. La già citata alternanza di mood ritmici e la “veste canora” camaleontica di Ali Chafik segnano il successo di un lavoro che non mostra mai segni di stanchezza, anzi, si presenta come un incentivo alla creatività per tutti quelli che si mettessero all’ascolto o volessero salire su un palco per fare musica. (Matteo Ceschi)

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KISHI BASHI, OMOIYARI, JOYFUL NOISE 2019

Le sonorità accattivanti di Omoiyari non vi devono ingannare: c’è della protesta dietro tanta grazia, c’è dolore, c’è un percorso umano e storico che ha ormai assolto la storia, ma non la dimentica. Americano figlio di immigrati giapponesi, Kaoru Ishibashi – in arte Kishi Bashi – riflette in questo suo quarto album sul terribile episodio dell’internamento di oltre 110 mila nippo-americani in campi di prigionia statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale. “Non volevo che questo progetto parlasse di storia, ma piuttosto dell’importanza della storia, delle lezioni che possiamo ricavarne”, ha dichiarato l’artista, che infatti incentra le sue canzoni non tanto su una denuncia esplicita, ma piuttosto su vicende individuali (la madre di Theme for Jerome (Forgotten Words), il giovane di Summer of ’42) o su relazioni (A song for you, per esempio, che con delicatezza tocca il tema della separazione e della lenta erosione della memoria). Non è difficile, tuttavia, intravedere dietro a tutto ciò anche continui riferimenti all’attuale amministrazione americana, le sue ansie xenofobe, i suoi muri, che anzi di fatto hanno avuto la funzione di vero e proprio input per questo album. E del resto pur essendo ispirato ad una vicenda storica particolare, avvenuta negli anni ’40, Omoiyari convoglia un messaggio che non ha tempo, a partire proprio dal titolo: si tratta infatti di una parola giapponese dal significato complesso che ruota attorno a quella che per noi è l’empatia, la comprensione degli altri, la compassione, il pensare agli altri, insomma una disposizione umana che per Kishi Bashi è l’unico modo per superare conflitti, xenofobia, intolleranza, paura. Musicalmente parlando Omoiyari è frutto di una scrittura solida ed elaborata, fatta di stratificazioni minuziose e sovrapposizioni delicatissime di voci e strumenti, che la produzione (più sobria rispetto ai lavori precedenti) mette in risalto in maniera pulitissima. Il violino resta lo strumento prediletto da Bashi, che qui abbandona certi virtuosismi a favore di una musica che suona più sobria, sincera, a cuore aperto. Lo stile, certo, resta quello di un pop sempre leggermente sopra le righe (“barocco” nei precedenti album), lussuoso e raffinato, ma meno appariscente ed ostentato. Omoiyari è un lavoro godibilissimo ma non a cuor leggero, perché anche il pop sa parlare di cose serie. (Elisa Giovanatti)

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GENERIC ANIMAL, GENERIC ANIMAL, LA TEMPESTA DISCHI 2018

Il primo disco solista di Luca Galizia, ventiduenne già chitarrista dei Leute che si nasconde dietro il progetto Generic Animal, è per la verità un lavoro di squadra: i testi musicati da Luca arrivano nientemeno che dalla penna di Jacopo Lietti dei Fine Before You Came mentre l’ottima produzione è stata curata da Marco Giudici e Adele Nigro (Halfalib, Any Other). Le tante mani all’opera però non inficiano l’immediatezza del risultato: Generic Animal è un lavoro fresco e insieme malinconico, sfrontato e insieme vulnerabile, proprio come la voce di Luca. È anche stralunato e preciso: l’andamento stiracchiato della voce, le metriche originali, i ritmi sbilenchi e sincopati, i testi nudi e diretti, inizialmente nascondono sotto un’apparenza lo-fi quelle che sono invece scelte più che ragionate; solo dopo un ascolto più attento tutto questo diventa un preciso intento, un utilizzo creativo e interessante di stilemi dalla provenienza più disparata (hip-hop, soul, anche jazz), un impianto sonoro assolutamente contemporaneo e internazionale, mentre proprio quella sensazione irrisolta che deriva da questo insieme tanto sgraziato di parole e arrangiamenti finisce per costituire grande parte del fascino dell’album. L’atmosfera urbana, il grigiore, l’asfalto, la pioggia, ma anche tanta vita e tanto cuore, insomma la quotidianità che si fa racconto, completano poi il quadro di un ottimo lavoro, che può sicuramente fare presa sul pubblico. (Elisa Giovanatti)

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NICOLAS MICHAUX, A LA VIE A LA MORT, TÔT OU TARD 2017

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Belga giramondo dalla personalità eclettica, Nicolas Michaux guarda senza timore di offendere la madrepatria alla Francia di Serge Gainsbourg e agli States post-grunge di Elliott Smith. E lo fa con una voce felina che ricorda un po’ lo scostante distacco di Carla Bruni. Le sonorità dell’album rispecchiano in pieno le caratteristiche del suo creatore: si passa dal pop minimale ricco di spunti danzerecci “da camera” della title track e di Un imposteur al folk sbarazzino di Croire en ma chance con un chitarra che suona deliziosamente “sgangherata”. Poi quando meno te lo aspetti arriva il rock più profondo e cavernoso un po’ in stile Television di Les îles désertes, il migliore pezzo dell’intero disco che pur si mantiene su standard decisamente elevati. A la vie, à la mort, sebbene non riscriva le regole del gioco, quantomeno ha i numeri per restituire a chi si pone l’ascolto validi strumenti per leggere ed interpretare le note che verranno. Se Nicolas non dovesse raggiungere il più grande pubblico sarebbe un peccato mortale per l’intero panorama europeo che, ahimè, rimarrebbe prigioniero dei suoi peggiori incubi televisivi. (Matteo Ceschi)

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PETER PIEK, +, PETER PIEK PAINTING STUDIO 2016

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Pittore, cantante e polistrumentista autodidatta, Peter Piek è uno stravagante artista tedesco che dal vivo offre performance multisfaccettate, in cui canta, suona, dipinge e scatta foto, in un’incontenibile espressione di talento. Talento che, per fermarci alla musica, è ben percepibile in quello che è ormai il suo quarto album, +, un lavoro squisitamente pop che scorre leggero su ritmi e colori variegati, e che si rivela in tutta la sua raffinatezza ad ogni nuovo ascolto: timbro vocale androgino particolarissimo, energiche sezioni di chitarre e batteria, beat elettronici, riferimenti disparati fra il l’electropop e l’indie rock si combinano in un affascinante esercizio d’artigianato di alto livello, una musica che, a differenza dei quadri dello stesso Piek, dà l’impressione di una grande concretezza. L’artista è attualmente in tour in Italia, non perdete l’occasione di ricevere un abbraccio di suoni e colori. (Elisa Giovanatti)

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PAVO PAVO, YOUNG NARRATOR IN THE BREAKERS, BELLA UNION/PIAS 2016

pavopavo

Interessantissimo debutto per i newyorkesi Pavo Pavo, talentuoso quintetto nato tra le mura di Yale, dove tutti i componenti hanno studiato musica (guadagnandosi anche qualche collaborazione importante, vedi John Zorn), e si sente: l’inventiva, la facilità del songwriting, la complessità e maturità del lavoro effettuato in studio (sovraincisioni, utilizzo di strumenti vintage, innumerevoli interventi di alto artigianato musicale)  sono sorprendenti, e sfociano in un album che porta alla mente artisti fra loro lontanissimi – il genio di Brian Wilson che aleggia, i vocalismi dei Grizzly Bear, il glam rock degli Sparks e tantissimo altro ancora – ma che, in maniera altrettanto evidente, è molto più della somma delle loro influenze. Tra sperimentazione e pop, Young narrator in the breakers sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione e regala una fortissima impronta personale. Pezzi freschi, ritmati, scintillanti (Ran, ran, run, 2020, We’ll have nothing going on), oppure dolci e lirici (Somewhere in Iowa, Wiserway), oppure squarci di pura inventiva (Belle of the ball, John (A little time)), raccontano la magia e il panico del passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, ed il senso di perdita e di malinconia che accompagna questo passaggio. Quello che è sicuro è che in questo disco si fluttua e ci si perde ad ammirare la leggerezza di una musica eccezionalmente ben fatta. (Elisa Giovanatti)

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LOCOMOTIF, BE2, MAUDE RECORDS 2016

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Torna con Be2 il trio Locomotif, formazione catanese che si esprime in una musica dal respiro internazionale, un dream pop denso di riferimenti letterari e musicali che trova ispirazione nel mondo anglosassone e lancia più di uno sguardo ancora più su (Islanda, mi verrebbe da dire). Uscito per Maude Records, il lavoro propone sonorità – e con esse le emozioni – sempre sospese, che ne fanno a tratti un disco d’atmosfera (nel senso più nobile del termine), senza disdegnare sconfinamenti nel pop-rock, nel soul (cui ben si presta la voce di Federica Faranda) o addirittura in una sorta di post-rock (Lezioni Americane). Fluido e godibile dall’inizio alla fine, Be2 coglie anche qualche motivetto più catchy pur esprimendo un mood prevalentemente malinconico. Apprezzabile la misura con cui vengono impiegati effetti e riverberi, che così spesso affossano le produzioni pop più “dream” (come se bastasse un riverbero per fare dream pop…), altro segno di accuratezza ed eleganza per questo disco, che tra le sue pieghe nasconde sfumature non banali. Waste, Love Is Over e Sailing Boat le mie tracce preferite di oggi, ma domani chissà. (Elisa Giovanatti)

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CARAVAN PALACE: L’INFINITA VOGLIA DI CONTINUARE A DIVERTIRSI

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Numero estivo per INDIANA MUSIC MAGAZINE, tutto all’insegna dei ritmi e delle melodie dei Caravan Palace, formazione parigina che ha recentemente pubblicato Robot Face, un buonissimo punto di partenza per chi volesse andare alla scoperta della contagiosa ed esuberante musica del gruppo. I Caravan Palace ci concedono qui una simpatica intervista, proprio a ridosso della loro data italiana in programma l’11 luglio al Circolo Magnolia di Segrate (MI), dove potrete saggiare di persona la potenza dei loro ritmi pulsanti ma anche la vivace eleganza del loro elettro-swing. Da non perdere poi la consueta sezione dedicata alla recensioni, succosa come al solito. Niente più indugi: cliccate sulla copertina, il download del magazine è gratuito.

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VERDIANA RAW, WHALES KNOW THE ROUTE, PIPPOLA MUSIC 2016

verdiana raw

Cantautrice, pianista e performer teatrale, la fiorentina Verdiana Maria Dolce allarga l’ensemble del progetto Verdiana Raw (che includeva già Antonio Bacchi alla chitarra e Fabio Chiari alla batteria) grazie all’incontro con Paolo Favati (fondatore di Pippola Music, qui bassista e co-produttore) ed Erika Giansanti (viola, violino, violoncello). Il risultato è un lavoro originalissimo, difficilmente inquadrabile, atipico anche laddove il discorso musicale si convoglia in forme pop-rock più canoniche (Time Is Circular, Amina’s). Molto curato nel sound e negli arrangiamenti, l’album dà spazio a sonorità corpose di piglio rock (emblematica The Disaster) pur mantenendo ben salde le radici nella formazione classica dell’artista. È, tutto sommato, una ballata pop-rock anche On The Road To Thelema, che presenta però un’altra caratteristica tipica della musica di Verdiana Raw: lo sconfinamento frequente nell’esoterico e in una scura new wave. I gorgheggi vocali, i riverberi eterei, i testi oscuri e qualche accento messianico sono evidentissimi qui come nella titletrack (le balene, memoria millenaria del mondo, voce delle emozioni profonde, conoscono istintivamente la rotta dei loro tragitti oceanici e sono il totem attorno a cui ruota il concept del disco), o ancora in Planets, pezzo bellissimo in cui le acrobazie vocali di Verdiana lasciano a bocca aperta, mentre la grazia del suo tocco al pianoforte si combina a meraviglia col lavoro della violista Erika Giansanti. Spazio alla delicatezza e all’evocatività, poi, con Durme Durme (rivisitazione di una ninna nanna sefardita) e la strumentale According To Satie. Disco dalle innumerevoli sfaccettature, Whales Know The Route merita certamente un ascolto. Qui sotto il teaser, per incuriosirvi. (Elisa Giovanatti)

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ANDY SHAUF, THE PARTY, ANTI- 2016

AndyShauf_The Party_Album Cover

La festa è quella di una piccola cittadina di provincia in cui tutti si conoscono, un house party i cui personaggi sono la ragazza che balla da sola al centro della stanza, con gli occhi di tutti su di lei (Eyes Of Them All), quello che arriva sempre in anticipo (Early To The Party), la coppia sull’orlo del litigio (The Worst In You), l’amico che si lamenta (Begin Again), la ragazza con cui il “narratore” si ritrova a ballare a fine serata e stranamente assomiglia alla sua ex (Martha Sways). Lo sguardo sul tutto è quello empatico, indulgente, di sincera partecipazione, di Andy Shauf, giovane cantautore canadese che finora si era cimentato in lavori di fattura perlopiù casalinga e che oggi approda finalmente in un vero studio di registrazione. Il risultato è un album dalla scrittura delicatissima e insieme sofisticata, che senza dare nell’occhio tiene insieme tanti piccoli dettagli (canto sommesso, pianoforte, chitarre, clarinetto, archi) avvolgendoli in un’eleganza discreta. Tra influssi indie (sprazzi di Belle & Sebastian, per dirne una) e reminiscenze beatlesiane (The Magician, il piccolo gioiello Begin Again), Andy Shauf ci fa davvero partecipare a questa festa, senza dimenticare di emozionarci anche un po’. (Elisa Giovanatti)

 

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