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CRISTIANO GODANO, MI ERO PERSO IL CUORE, ALA BIANCA 2020

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I fan più sfegatati dei Marlene Kuntz troveranno poco del loro gruppo preferito. Dopo trent’anni Cristiano Godano ha voluto fare tutto da solo, o quasi, realizzando il primo disco a suo nome. Qui il suono è quasi totalmente acustico, scarno, per far emergere con forza il suo io, quello più fragile, più vulnerabile. In Mi ero perso il cuore Godano è in continua lotta fra “ragione e sentimento”, fra i fantasmi della mente e la leggerezza del cuore, fra depressione e paura e la voglia di amare. I tredici brani di questo album, che sembra essere stato scritto durante il lockdown, ma che in realtà è stato registrato circa un anno fa, sono stati realizzati in questo stile “fuori dal tempo” grazie al contributo alla produzione degli amici di vecchia data Gianni Maroccolo e Luca A. Rossi. I due  musicisti hanno anche suonato, insieme a Simone Filippi, l’interro disco, accompagnando Cristiano in questo suo viaggio inedito. Un paio di canzoni hanno addirittura un’impronta country-folk. Chi l’avrebbe mai detto? Si tratta di Com’è possibile, secondo singolo dell’album in cui il cantautore si appoggia a Bob Dylan per dire “La risposta è lassù e soffia nell’aria”. Nella parte finale del video Godano inserisce un omaggio a George Floyd comparendo con la scritta “I can’t breathe”. L’altro è il conclusivo Ma il cuore batte. L’album contiene anche due brani più rock, Lamento del depresso e Panico, ma io mi soffermo su Dietro le parole, ballata acustica di una sincerità disarmante: l’artista dice di sentirsi nudo, debole senza le sue parole e lo fa con un canto acuto e flebile che non si dimentica. Ottimo debutto per un signore che, piaccia o non piaccia, ha fatto la storia del rock italiano degli ultimi trent’anni. (Katia Del Savio)

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PILLOLE INDIANE, TRE DISCHI TUTTI DA ASCOLTARE

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Molte etichette, per la precisione cinque, si sono scomodate per produrre questo disco: In The Bottle Records, Shyrec, Indipendead, PoPe VRecords e la canadese Death Roots Syndacate. The Weak è l’album d’esordio di Lorenzo Mazzilli, qui sotto le mentite spoglie di The Giant Undertow, ma che in passato è già stato attivo in alcune band (come bassista di Daniel Payne, ad esempio, è andato in tour in giro per l’Europa). Il genere prescelto da The Giant/Lorenzo si muove fra l’alt-country e il folk (Neil Young è l’artista di riferimento), e la sua voce profonda e intensa (il “nostro” Johnny Cash) è assolutamente credibile in questo contesto sonoro, nonostante le documentate origini venete. Momenti aperti e selvaggi (Murder Cue, Lone) si alternano a fascinose ballate in cui perdersi o a brani più rock’n’ roll (The Batte of Wine). Captivity Waltz sorprende con i suoi continui cambi di ritmo, mentre In the Trees è una ballad con i piedi ben piantati nel country. “Play it loud, don’t forget to” Questo ce lo dice lo stesso Giant nel libretto del Cd. Obbediamo!

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Una voce che ricorda Thom Yorke ci accoglie in Hands, brano che dà il nome all’EP di Makai  (Dario Tatoli), producer, sound designer e polistrumentista che qui si lancia in sonorità elettroniche decisamente nordiche (i Sigur Ros vi dicono qualcosa?) che si fondono con una scrittura di stampo cantautorale. Il dream pop di Last Days si trasforma nel martellante loop di Missed, pezzo evanescente in cui è facile perdersi piacevolmente (già segnalato nell’Indiana Playlist di agosto). Summer è lentissimo, acquatico, completamente immerso nelle emozioni, mentre in Sofia, si parte e si conclude con quello che, se esistesse, potrebbe essere il suono del sole riflesso nel mare, ma nella parte centrale, con la preponderanza delle chitarre, si ha la sensazione di riemergere. Aspettiamo con curiosità il prossimo lavoro di Makai (qui uscito per l’etichetta More Letters Records).

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Un altro artista italiano da tenere d’occhio è Fabio Bliquo, autore (anche di colonne sonore) e musicista (suonava piano e chitarra nei Malaspina) che nel 2011 pubblicò il suo primo EP. Da poco è uscito Controsensi, album disponibile in freedownload su Soundcloud. “Volevo realizzare un album eclettico, che rappresentasse bene l’eterogeneità della mia visione musicale”, e Fabio ci è riuscito citando con stile i grandi della musica italiana: nel brano dal sapore battitesco (La lesione), o nel pop che a tratti ricorda lo stile canoro di Jannacci (Pagliacci), e ancora nell’l’elettro-pop anni ’80 (le martellanti Made in China e Trash song), o nella battistiana Provo a respirare. In tutto l’album si fa un massiccio uso dei synth, di ironia e di “surrealismo”: ascoltare Macchie per credere. Controsensi è un disco-giocattolo. Cosa combinerà Fabio Bliquo la prossima volta? (Katia Del Savio)

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INDIANA PLAYLIST

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La nuova rovente playlist di Indiana vi propone 12 tracce che spaziano dal folk all’elettronica, dal rock al cantautorato. Artisti italiani e internazionali accomunati dal motto: be indie be free! Se siete stufi dei tormentoni estivi e della solita musica usa e getta godetevi come sempre la nostra compilation in streaming e continuate a seguirci qui sul blog e sulle pagine Facebook e Twitter!

 

 

 

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TANITA TIKARAM, CLOSER TO THE PEOPLE, EARMUSIC 2016

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Un treno corre veloce verso l’amore, inizia così il nuovo album di Tanita Tikaram, con Glass Love Train, una gioiosa canzone in cui i fiati incalzanti sembrano simulare il suono di vagoni in movimento. Iniziamo così un viaggio nei sentimenti della cantautrice inglese, un viaggio fatto di energia e passione, veicolato da ottima musica che spazia dal country-blues di Cool waters al soul di Food on my table, dalla divertente latin-gitano-mariachi The way you move (una via di mezzo fra Santana e Willie DeVille) al folk della delicata ballata Don’t turn your back to me, fino al jazz piano-voce di My enemy.. Ma è il blues, in tutte le sue connotazioni, a farla da padrone nel nono album della Tikaram, a partire dall’originale title track, che la stessa Tanita dice di aver scritto dopo aver scoperto la figura di Anita O’ Day, cantante jazz bianca carismatica e dalla vita travagliata, la cui carriera ebbe il suo apice a cavallo fra gli anni ’50 e i ’60. Contrabbasso e percussioni sono protagonisti dell’ammaliante Gris gris tales; di nuovo basso, piano e batteria accompagnano la sempre potente voce di Tanita nel jazz-blues The dream of her, mentre in Night is a bird la ragazza si è ispirata a Thelonious Monk dopo aver visto un documentario su di lui. Closer to the people è un disco nitido, caldo e viscerale e la voce di Tanita resta come sempre piena di fascino. Da non perderla dal vivo con la sua fantastica band l’1 e il 2 aprile al Blue Note di Milano. (Katia Del Savio)

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IAN FISHER, NERO, SNOWSTAR RECORDS 2016

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Un country-folk-rock dolce e sanguigno allo stesso tempo si diffonde nelle orecchie scaldando il nostro cuore. Ian Fisher viene dal Missouri, ma da anni gira per l’Europa, ora è di stanza a Berlino,  è passato di recente dall’Italia per un tour di quasi 15 date. Il suo cantautorato dalle forti connotazioni statunitensi, è ricco di umanità, di lirismo e di malinconia. Chitarre acustiche, pianoforte, pedal steel guitar formano l’ossatura sonora di Nero. La delicatissima voce di Alexia Peniguel (cantante australiana nota con il nome artistico A Seated Kraft) accompagna Ian in molte tracce, e banjo, basso, mandolino e wurlitzer spuntano in alcuni episodi fornendo un’atmosfera decisamente country a questo album di debutto intimo ed emozionante. Anche la voce di Ian funge da strumento acustico dall’ampia cassa armonica: ascoltare la conclusiva Just like a stranger per credere. Gli arrangiamenti ridotti al minimo fanno di Nero un disco caldo ed essenziale allo stesso tempo. Consigliamo di ascoltarlo accovacciati sul divano con una bella coperta di lana e una candela accesa. (Katia Del Savio)

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FRASER A. GORMAN, SLOW GUM, MARATHON ARTISTS 2015

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23enne di Melbourne, amico di Courtney Barnett – con la quale condivide etichetta ed alcuni stilemi, e spesso e volentieri anche il palco – Fraser A. Gorman debutta con Slow Gum, un album che ha in Bob Dylan, Neil Young, The Band, l’Americana e il miglior folk-roots anni ’70 la principale (ma non unica) fonte d’ispirazione, insieme a qualche richiamo black. Basta guardarlo, nelle numerose foto seppiate o in bianco e nero, coi riccioli alla Dylan, le giacche di jeans o i maglioncini anni ’70, per vedere tutto il suo amore per la tradizione musicale a stelle e strisce: chitarra acustica, lap-steel, organo hammond o piano rhodes, armonica e melodie senza tempo fanno il resto, eppure non è semplice revival. C’è a volte un sottile piglio ironico, uno sguardo stralunato, un modo un po’ svogliato e un’aura vagamente crepuscolare, che a tratti ricordano un certo Lou Reed, il più delle volte suonano originali; c’è, soprattutto, una grande capacità e scioltezza nella scrittura di testi dal fascino indiscutibile, soprattutto laddove sono musicati nella maniera più scarna.  L’album vacilla leggermente in alcuni pezzi della parte centrale, offrendo le sue perle, invece, all’inizio e alla fine: Big Old World, l’acclamato singolo Book Of Love e la struggente, conclusiva Blossom & Snow, i brani più schietti ed essenziali. (Elisa Giovanatti)

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OLIVIA JEAN, BATHTUB LOVE KILLINGS, THIRD MAN REC. 2015

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Direttamente dall’operosa e magica corte musicale di Jack White, arriva sui vostri stereo il debutto solista della polistrumentista Olivia Jean. Dopo un passato da sidewoman in televisione e sul palco, e un ruolo centrale con le Black Belles, sempre per l’etichetta Third Man, la brava Olivia si cala svelta nei panni della frontwoman e sgretola con poche note le certezze della concorrenza. Lasciati da perdere gli inquietanti avvenimenti evocati dal suggestivo titolo, il disco comincia a salire in quota rivelando all’ascoltatore un talento puro e libero da ogni condizionamento sonoro: accanto agli anni cinquanta fanno capolino richiami alle lussureggianti atmosfere dei Caraibi, al folk-rock, alle rudi maniere delle garage bands e persino alle inquietudini delle riot girls. Il tutto è assemblato con grande maestria, spesso, addirittura, nella stessa traccia, tanto da risultare sempre originale e mascherare l’ingombrante presenza di Jack White, produttore attento e parsimonioso sideman nella sola Cat Fight. Olivia dimostra di avere studiato bene la storia, ma il passaggio dell’esame di maturità sembra avere lasciato in lei solo un ricordo sbiadito su cui incidere liberamente graffianti fraseggi e ipnotiche melodie. La scarna e poetica Haunt Me è un perfetto manifesto di popular music – con suggestioni à la Exile on the Main St. o à la Bryter Layter – tanto da rivelare che certi musicisti contemporanei sono in grado di cancellare ogni debito con chi li ha preceduti e di allungare il passo verso nuovi territori sonori. Senza timore di essere smentito, annuncio che il migliore disco rock dell’anno suona tutto al femminile. (Matteo Ceschi)

 

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LERA LYNN, THE AVENUES, LERA LYNN MUSIC 2014

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Innovare e risultare originali pur rimanendo legati alla tradizione è una delle imprese più difficili per un artista. Lera Lynn, giovane stella del folk country rock originaria di Houston, ci riesce e lo fa in una maniera tutta sua che fa gridare al miracolo. <WOW!> Assurta agli onori della cronaca d’oltreoceano per l’ospitata al David Latterman Show, la Lynn nel giro di pochi mesi è uscita con tre album uno più bello dell’altro (tutto, e ne siamo molto grati, in free-download sulla piattaforma NoiseTrade.com) sfidando ogni sensata legge di mercato. Il coraggio ha pagato, possiamo oggi affermare, e ha regalato al pubblico una voce che, senza timore di venire fulminati, suona in maniera originalissima come un’evoluzione tutta al femminile del Bob Dylan di Self Portrait. Il legame con le radici del folk c’è e non viene nascosto, così come fece agli esordio Sheryl Crow, ma invece di risultare una pesantissima palla al piede si trasforma in un flessibile trampolino di lancio verso la nota che deve essere ancora suonata. Individuare un brano piuttosto che un altro è un’impresa quantomai ardua nel caso di The Avenues e dei suoi due gemelli Have You Met Lera Lynn? e Lying in the Sun: il consiglio è di lasciarsi andare agli umori della giornata e scoprire la canzone più adatta a voi. Io, nel momento di scrivere queste righe, ho scelto Standing on the Moon e Letters. (Matteo Ceschi)

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AA.VV., NATIVE NORTH AMERICA (VOL. 1), LIGHT IN THE ATTIC RECORDS 2014

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Il titolo completo recita Native North America (Vol. 1): Aboriginal Folk, Rock And Country 1966-1985. Si tratta di 34 introvabili incisioni (inclusi alcuni veri gioielli), recuperate grazie al lungo lavoro del musicologo e archeologo Kevin “Sipreano” Howes, che riportano alla luce un repertorio sommerso e ai più sconosciuto, quella particolare produzione musicale dei nativi del Nord America che prende forma dall’incontro/scontro con il pop-rock mainstream, uno scambio fondamentale per la reciproca definizione della produzione musicale: se da un lato sono evidentissimi i lasciti folk, rock e country nella musica dei nativi, dall’altro va finalmente riconosciuto infatti il sostanziale contributo di questi ultimi alla canzone d’autore americana. Echi di Johnny Cash, Bob Dylan e Neil Young, per non parlare di vero garage-rock (ascoltate Fall Away dei Sugluk) e di rock psichedelico (la bella Old Man Carver di Willie Thrasher), risuonano così nella poetica dei nativi. Proprio nel complesso rapporto coi generi mainstream sta il senso di unità che deriva da questo materiale pur così eterogeneo, frutto di esistenze messe ai margini (dai pregiudizi, dalla politica) che vivono e lottano fra l’impulso di imitare gli altri e quello di distinguersi e autodeterminarsi. Il tema politico – l’emarginazione, il ratto della terra, i soprusi – ha ovviamente largo spazio, insieme al racconto mitico-sacro e alla rievocazione nostalgica di una vita e un mondo ormai perduti. “Pollution it chokes me, movies they joke me”, canta la voce calda di Willie Dunn – paladino dei diritti dei nativi americani morto durante il concepimento dell’album – nella splendida I Pity The Country, restituendo tutto il senso della raccolta in due minuti traboccanti di poesia e rassegnazione. (Elisa Giovanatti)

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MARTIN HAGFORS AND C+C=MAXIGROSS, AN INSTANTANEOUS JOURNEY, VEGGIMAL 2014

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Continua quel piccolo miracolo sonoro chiamato C+C=Maxigross, quell’impasto di sonorità calde e ammalianti nato fra le Prealpi veronesi, fra legna che brucia nel camino e un bicchiere di vino, un po’ folk e un po’ psichedelico, un po’ Neil Young e un po’ Grateful Dead. Ed è d’altronde un piccolo prodigio anche il loro incontro con Martin Hagfors, americano ma norvegese d’adozione, prolifico musicista ex Home Groan, uno strano ritrovo di spiriti così lontani – anagraficamente e geograficamente – ma così affini da rendere quasi migliori degli originali, in questo Instantaneous Journey, sei dei pezzi più noti dello stesso Hagfors: un’operazione che, a differenza dei lavori precedenti dei giovani della Lessinia, questa volta non sa tanto di gioco ma piuttosto di genuina vicinanza artistica. Riarrangiati e reinterpretati nello stile dei C+C=Maxigross, i brani di Hagfors riacquistano nuovo fascino fra reminiscenze di indie rock britannico (Maximum Amount), puntante nel country e nella road song (The Woods, Country Chris) e folk acido e riflessivo su tempi lenti (Company Oil). Un impatto più corposo è quello dell’ottima Coffee Or Cigarettes, mentre Astrodome chiude come meglio non si poteva questo viaggio istantaneo: ballatona malinconica con splendide armonie vocali, romantica, intensa, ha una coda quasi epica se la melodia non fosse così morbida e vagamente dolente. (Elisa Giovanatti)

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