La voce è una, quella calda, profonda e avvolgente del marchigiano Manuel Volpe, eppure sembrano tante, perché i luoghi di questo Albore sono molteplici (dall’Africa al Mediterraneo), le influenze disparate (spiritual jazz e jazz contemporaneo, poliritmie del Continente Nero, suggestioni medio orientali), l’impasto musicale intricato (ma molto ben intelligibile), con voce e strumenti a scambiarsi di frequente di ruolo. Albore è un lavoro plurale nel senso più bello del termine. È un viaggio eclettico, in spazi fisici ma anche interiori, che sfocia in una sorta di realismo magico, complici i ritmi caldi e sensuali della Rhabdomantic Orchestra. Personalmente, le mie tracce preferite sono la titletrack, Nostril e Atlante, ma è poi la sensazione d’insieme a prevalere alla fine dell’ascolto. L’album è uscito per la prestigiosa label tedesca Agogo Records, un altro tassello di questo bel viaggio. (Elisa Giovanatti)
Impegnata nel recupero e nella promozione del patrimonio culturale siciliano, Gera Bertolone è cantante, clarinettista ed etnomusicologa: tre modi differenti di vivere il rapporto con la musica, uno spessore formativo complesso, un background poliedrico di gran peso, che non può se non essere estremamente esigente, anzitutto con se stessa. Di qui forse deriva, ascoltando La Sicilienne, la sensazione di un lavoro maniacale, in cui nulla è lasciato al caso. Una tracklist ben farcita recupera brani della ricchissima tradizione musicale siciliana offrendone una rilettura rispettosissima e contemporaneamente non immune da una raffinata impronta autorale. I mezzi espressivi sono quelli della tradizione isolana, di cui si colgono anche i disparati influssi mediterranei, mentre la vocalità di Gera, raffinata ed espressiva, sa coinvolgere ed emozionare, sostenuta dalla collaborazione del polistrumentista Rares Morarescu (violino, mandolino, chitarra e arrangiamenti). Il progetto è audace e incontrerà favori all’estero, dove le nostre tradizioni sono apprezzate e studiate e questo genere di operazioni è riconosciuto in tutto il suo valore, ma potrà contribuire anche in Italia ad avvicinare una fetta di pubblico alla scoperta di questo repertorio. Intanto, Gera Bertolone ci consegna un album dal sapore antico, che a ben guardare racconta storie di valenza universale, oggi come nella notte dei tempi. (Elisa Giovanatti)
Molta della bellezza di questo secondo lavoro solista di Adriano Viterbini (voce e chitarra del progetto Bud Spencer Blues Explosion) risiede nella delicatezza e nella precisione dell’approccio: che si accosti pezzi di altri artisti o che proponga brani autografi, Viterbini lo fa in modo rispettoso, consapevole, maturo e personale. Il risultato è un viaggio affascinante, quasi tutto strumentale, che percorre in lungo e in largo la geografia mondiale, nel solco del blues ma con orizzonti aperti alle più disparate influenze. Le ritmiche tuareg sono lo spunto di Tubi innocenti, prima tappa di Film |O| Sound (il titolo del disco, a proposito, è un evidente gioco sul nome del proiettore a bobine degli anni ’40, usato qui come amplificatore). Andiamo nell’Africa nera con la successiva Malaika, brano interpretato tra gli altri da Harry Belafonte e Miriam Makeba, proposto qui in una versione essenziale, con la melodia affidata alla tromba di Ramon Caraballo, uno dei tanti artisti ospiti, e siamo ancora in Africa anche con la bella Tunga Magni di Boubacar Traore. Straordinarie Nemi, Solo perle, Welcome Ada (con Bombino) e Bakelite, che ci portano in terre aride e desertiche, e non senza una buona inclinazione per un’evocatività cinematica, confermata anche dalla dolce cover di Sleepwalk, grande classico di Santo & Johnny, che qui incontra qualche tocco di psichedelia e un sorriso. L’America a stelle e strisce è omaggiata anche nell’unico pezzo cantato del disco, Bring It On Home, con Alberto Ferrari dei Verdena alla voce, per una versione tutta da ascoltare del classico di Sam Cooke. Il viaggio si conclude su una rivisitazione morbida, delicatissima e sognante di un’altra pietra miliare, Five Hundred Miles. Un lavoro consigliatissimo, in cui Viterbini riassume le sue grandi passioni, tutte tenute sotto un velo meravigliosamente elegante. (Elisa Giovanatti)
Da un’angolatura spesso surreale il cantautore italo-somalo Sammy Osman racconta colori, profumi e suoni della realtà di ogni giorno, e se sembra voler evadere danzando su ritmi senza sosta, dall’altro lato è intimamente ancorato alla quotidianità, per via di tutti quei piccoli dettagli che ritroviamo nei suoi testi: vicoli chiassosi, notti insonni, sapori e incontri restituiscono con vividezza ambienti urbani, terre di mare, mondi lontani e vicini. Gerico, infatti, è un freschissimo viavai di mondi e influenze, che ha il suo centro nel Mediterraneo – esplorato da ogni sua sponda, da quelle a noi più familiari fino a includere sonorità e suggestioni ispaniche, gitane, magrebine e balcaniche – ma non disdegna incursioni in terre più lontane, Russia (Davai Tavarish) e Oriente (Salomè) in primis. Menestrello dalla voce calda, Osman si diverte e ci diverte fra spontanee serenate (Boom Boom), toni fantasiosi (La sposa cadavere), ritmi pulsanti (Vengo a prenderti così), accompagnato da una sezione strumentale estremamente capace e raffinata (clarinetto, percussioni, contrabbasso, chitarra e cori), che lo segue in una perfetta adesione di intenti. Il rischio di perdersi fra mille suggestioni era altissimo, e invece la formazione appare in pieno controllo. Un esordio caleidoscopico e maturo. (Elisa Giovanatti)
“Personalmente credo che la ricchezza ritmica che deriva dall’Africa e che ha fecondato tantissimi generi musicali sia uno dei più grossi debiti che il mondo ha contratto nei confronti del continente nero”. Così Carlo Maver spiega Tracce d’Africa, che in effetti altro non è che una personalissima esplorazione di alcune figure ritmiche africane e delle loro più disparate influenze. Di matrice prettamente jazzistica, l’album propone interessanti commistioni ed esperimenti, attraversando in lungo e in largo generi e continenti, America Latina e Medio Oriente, tango e choro, jazz e progressive (con piacevoli reminiscenze di Ian Anderson). Virtuoso suonatore di bandoneon – strumento a mantice, pilastro della tradizione tanguera argentina – Maver privilegia qui il flauto, di cui vanta un diploma al Conservatorio di Bologna: Chansonne de Chameaux, Bona Noite Leo, Rio de la Plata, Tubabu, così come diversi altri brani, avvolgono il flauto con percussioni dall’eco tribale e le affascinanti sonorità del vibrafono affidato a Pasquale Mirra, creando stratificazioni complesse rivelatrici di un’ottima vena compositiva e di una raffinata ricerca timbrica. (Elisa Giovanatti)