Tag Archives: European folk

PIERS FACCINI, I DREAMED AN ISLAND, BEATING DRUM/PONDEROSA MUSIC & ART 2016

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Altro che Brexit, altro che fine dell’Europa. Piers Faccini è un artista che per storia personale racchiude in sé diverse culture: madre inglese, padre italiano e residenza nel sud della Francia. Cantautore e pittore, nel suo nuovo album Piers supera anche i confini europei attingendo, fra le altre, a sonorità provenienti dall’alta sponda del Mediterraneo. Per Piers l’isola sognata nel titolo del disco è la Sicilia del XII° secolo, un luogo idilliaco in cui le culture arabe, bizantine ed europee si fondevano armoniosamente. I Dreamed an Island è senz’altro frutto di un duro lavoro di ricerca nelle radici della musica e della cultura che accomuna i Paesi mediterranei e non solo, prendendo spunto da tradizioni folk di varia provenienza. In Bring down the wall, manifesto sulla tolleranza che funge da punto focale del disco, fra una strofa in inglese e l’altra (con un fraseggio che ricorda quello dell’amico Ben Harper) si insinua qualche frammento in dialetto salentino. In The Many Were More è la lingua araba (tratta dal poema dell’arabo-siciliano Ibn Hamdis e cantato con l’algerino Malik Ziad) ad accompagnare l’inglese, mentre nell’iniziale To be Sky si possono scorgere echi di ballate celtiche. Molto intensa Beloved, con un inizio a cappella che lascia senza fiato e il resto del brano, arabeggiante, altrettanto coinvolgente, mentre il successivo, più solare, Anima mescola sonorità mariachi a parole in palermitano, e così via, in un gioco di continui rimandi, intrecci linguistico-musicali difficili da sbrogliare. Il compimento di questo lavoro certosino è stato possibile grazie alla collaborazione di diversi musicisti dalle svariate provenienze geografiche: dal violinista tunisino Jasser Haj Youssef al bassista americano Chris Wood, dal percussionista franco-iraniano Bijan Chemirani agli italiani Simone Prattico (batterista e percussionista) e Luca Tarantino (chitarrista) e molti altri. Lo stesso Piers Faccini ha suonato numerosi strumenti a corde, compresa una chitarra costruita apposta con l’aggiunta di mini tasti per suonare in toni maggiori. Nonostante l’eterogeneità culturale volutamente cercata, l’album sprigiona un suono compatto, armonioso, che trasmette un generale senso di serenità, anche quando, nella conclusiva Oiseau si parla di un potenziale terrorista che chiede di essere risvegliato dal cinguettio degli uccelli. (Katia Del Savio)

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LA MAISON, VAINE HOUSE, TROVAROBATO 2015

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Formazione livornese precedentemente nota come Brondi Bros, La Maison presenta il suo primo a dir poco funambolico disco, Vaine House, chiamato come quel blocco di case popolari dell’East London in cui i nostri hanno condiviso l’appartamento durante il loro recente passato londinese, durante il quale si sono esibiti come busker e hanno incontrato l’umanità più varia. Un bagaglio di esperienza che si riversa completamente in questo lavoro, registrato da Taketo Gohara e prodotto da Enrico Gabrielli. Grottesco, folle, irruento, Vaine House è quanto di più imprevedibile ci sia in circolazione, tanto che alla fine i pezzi che più degli altri lasciano una sensazione straniante sono quelli che più assomigliano a qualcosa di convenzionale e irreggimentato (Rebs, Like A Snake e Valentine Road). Perché qui siamo in un mondo sonoro sghembo e capovolto, senza regole, in cui a farla da padrone sono forme impazzite, vortici indiavolati e attitudini giocoliere (Zingaraje, Richmond, Sarajevo). Inconsueti sono anche gli strumenti utilizzati, che nella loro varietà includono trombe, accordion, violino, violoncello, mandolino e quant’altro, per un folk-rock che guarda molto più alla tradizione gitana ed est-europea piuttosto che a quella americana. Al di sotto di tutto, come se non bastasse, scorre un filo inquietante e decadente (Devil, Frankie), a complicare ancora di più il lavoro di chi vi vuole presentare questo disco. Meglio lasciar parlare La Maison. (Elisa Giovanatti)

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AL BERKOWITZ, A LONG HEREAFTER/NOTHING BEYOND, TEMPEL ARTS 2015

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È raro vedere una band spagnola varcare i confini nazionali, ancora di più se questa band suona un singolare miscuglio di folk, rock e psichedelia: per fortuna però accade ad Al Berkowitz, formazione madrilena capitanata dal cantante e polistrumentista Ignacio Simón, che pubblica finalmente a livello mondiale questo secondo LP, a poco più di un anno di distanza dall’uscita in Spagna. Ed è con una certa sorpresa che ci troviamo così di fronte a una band dalla precisa e unica identità musicale, mantenuta anche nei continui e disinvolti passaggi da un genere musicale all’altro; arrangiamenti preziosi e armonie (vocali e strumentali) variegate e raffinatissime sono le caratteristiche su cui si imperniano gli 8 pezzi di A Long Hereafter/Nothing Beyond, da quelli che suonano in una sorta di morbido e soave folk psichedelico (You And I, How Could We Get Ourselves Lost?, Sensitive, Not Dramatic) fino alle più istrioniche prove di Magical Cynical, Farewell, My Lady e soprattutto The Frenchman And The Rabbitman: inventiva, multicolore, quest’ultima raccoglie in 8 minuti idee e materiali che sarebbero bastati a costruire un intero album. Rielaborando con sensibilità influenze molteplici (da Robert Wyatt, cui rimandano certi delicatissimi andamenti delle linee vocali, a Nick Drake, dai Beach Boys ai Pink Floyd) gli spagnoli riescono a proporre un suono unico e originale, trovando anche un difficile equilibrio fra stile ed emozione. Speriamo di risentirli presto all’opera. (Elisa Giovanatti)

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VILLAGERS, DARLING ARITHMETIC, DOMINO 2015

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“It took a little time to get where I wanted / It took a little time to get free / It took a little time to be honest / It took a little time to be me”. Comincia così lo splendido ritorno di Villagers (Conor O’Brien), una messa a nudo inaspettata e autentica, a ricordare a tutti che la cosa più difficile, in fondo, è proprio imparare ad essere se stessi. O’Brien lo fa con una musica ridotta all’osso, minimale, che procede per sottrazione (quanto siamo lontani da Awayland!), una scrittura in tono minore, che ci avvolge in luci soffuse, mettendo in risalto parole che invece pesano come macigni, dirette e genuine, le vere protagoniste dell’album, cantate da una voce piena di sentimento, su linee sinuose e sfuggenti. Sembra di assistere, in sole 9 tracce, ad un intero percorso umano (e artistico) per l’auto-accettazione, un percorso che sfiora ogni sfumatura del sentimento, per uno svelamento di sé tanto radicale da far venire i brividi al suo stesso protagonista (So Naïve). La già citata Courage, la ballata Hot Scary Summer, la pungente Little Bigot, la titletrack, le tenui Dawning On Me e No One To Blame, raccontano magistralmente tutte le fatiche del fare i conti con se stessi; sono pezzi illustrati nel comunicato di lancio del disco con una gran profusione di parole dello stesso artista: interpretazioni che preferisco non riportare, essendo questo genere di lotte interiori così universale da far sì che ognuno vi possa trovare il proprio significato. Un gran bel ritorno, un disco da lasciar sedimentare. (Elisa Giovanatti)

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DI OACH, DI OACH, AUTOPRODUZIONE 2015

diOach

Riscoperto in anni recenti, specie nella sua variante più intimista e sussurrata, il folk sta pian piano popolando il suo panorama di tante belle nuove realtà, band lontane dai riflettori e dal clamore che fanno musica di grande qualità e autenticità. Con la freschezza tipica dell’opera prima e la libertà artistica dell’autoproduzione si affacciano in questo contesto anche i Di Oach, giovanissimi vicentini che propongono sonorità prevalentemente acustiche, raffinati intrecci vocali e atmosfere lievi e delicate. Piacevolissimo il primo brano, The Mountain Fox, che rivela subito quanto sia stata assimilata la lezione vocale di Joe Newman degli Alt-J, il cui saliscendi stralunato delle melodie è qui riproposto dal bel timbro caldo di Nicola Traversa. Nella successiva Don’t Know stupisce l’Irish pipe, ma il quartetto del resto pesca in ugual misura in Nord Europa e America; i ritmi lievi sono spesso ulteriormente addolciti dalla seconda voce femminile, mentre quando si fanno più cadenzati ricordano nemmeno troppo da lontano i Mumford & Sons. Il suono del glockenspiel dà un tocco fiabesco e sognate a tutto l’album, che dipinge spaccati di vita quotidiana per immagini evocative più che per racconti. Pagine raffinate si ascoltano in Every Early Morning, Who Won, Who Lost, Stubborn’s Cure e The First Time, il pezzo più americano, un country-blues molto ben riuscito. Si chiude con Like The Oaks, brano da cui prende il nome la band (di Oach, nell’antico dialetto cimbro, è la quercia): nel bell’intreccio di voci si innesta con la massima naturalezza possibile anche la tromba, che svolazza a lungo  senza minimamente scalfire gli equilibri del brano. (Elisa Giovanatti)

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