Tag Archives: free jazz

TAXIWARS: SOPRAVVIVERE AGLI ANNI NOVANTA

Giusto in tempo per gli auguri di Buone Feste arriviamo con il numero 32 di INDIANA MUSIC MAGAZINE, dove raccogliamo alcuni buoni consigli di fine anno e soprattutto incontriamo in una bella intervista i TaxiWars, interessantissima formazione che propone – come nel recentissimo Artificial Horizon – un mix straordinario di free jazz, funk, hip-hop e post-punk. Chiudiamo dunque in bellezza il 2019! Un semplice click sulla copertina qui sopra, e buona lettura!

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TAXIWARS, ARTIFICIAL HORIZON, SDBAN ULTRA 2019

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Un disco notturno, dalle sfumature un po’ crepuscolari, se vogliamo, quello che Tom Barman, frontman dei dEUS, e il sassofonista belga Robin Verheyen (insieme al bassista Nicolas Thys e al batterista Antoine Pierre) propongono al pubblico. Artificial Horizon ha il gusto musicale di una secret jam a cui pochi fortunati possono assistere. Questa sua natura “aperta & possibilista” porta i suoi interpreti a non fissare mai dei paletti sonori ma a lasciarsi ispirare dal momento e dalle situazioni: il jazz così si mescola a forme di hip-hop old school (Sharp Practice ricorda davvero molto gli Spearhed) prima di passare affascinanti forme di free-post-punk (la title track, ad esempio). C’è anche spazio per ballad dal sicuro impatto emotivo (Irritated Love) e per compiaciute citazioni di classic rock (Different or Not è costruita a partire dal groove inconfondibile di Under My Thumb degli Stones). Nel complesso l’album dei TaxiWars con il suo ampio spettro di proposte sembra riuscire a dare fiato a una naturale quanto impulsiva voglia di variazioni di fronte al continuo ripetersi di pattern e standard artistici. (Matteo Ceschi)

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PAOLO RICCA: FANTASIA E IMPROVVISAZIONE ASPETTANDO I SOFT MACHINE

Rieccoci qui, ad augurarvi una buona estate con il ventottesimo numero di INDIANA MUSIC MAGAZINE, un’uscita di cui siamo particolarmente orgogliosi per la ricchezza dei contenuti: grazie quindi a Paolo Ricca, compositore e arrangiatore torinese che non si è certo risparmiato per questa interessantissima intervista che qui vi proponiamo, in cui si spazia per gli anni ’70, il nuovo disco Mumble, la collaborazione con John Etheridge dei Soft Machine, e molto altro. A seguire una scorpacciata di recensioni e consigli per i vostri ascolti estivi: con Liz Vice, Meganoidi, Foscari, Cimini, Postino e Belize sarete in ottima compagnia, parola di Indiani! Non vi resta che cliccare sulla copertina qui sopra, e buona lettura.

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ZARA MCFARLANE, ARISE, BROWNSWOOD REC. 2017-18

ZaraMcFarlane_Arise

Quando mi è arrivato tra le mani Arise, sono rimasto subito incuriosito e non ho lasciato passare molto tempo prima di fare partire l’ascolto. L’impazienza e la curiosità, in questo caso, sono state premiate regalando alle mie orecchie uno dei dischi più interessanti degli ultimi tempi, un lavoro al mio udito in grado di competere per la freschezza dell’approccio con The Source di Tony Allen. Il mood musicale di Zara McFarlane si dipana con eleganza sul confine quasi inviabile che divide l’acide jazz degli anni Novanta dalle incredibili intuizioni dell’allora contemporanea scena di Bristol. La cantante inglese di origini caraibiche fa scendere sull’ascoltatore una gentile bruma profumata che rompe il grigio d’ordinanza – una tinta adatta ormai solo alla Brexit – saturando l’orizzonte con oleose e avvolgenti sfumature che da qui possiamo solo intuire provenire dal ricco universo caraibico. Fussin’ & Fightin’, terza traccia dell’album, è un esempio di questa riuscita forma di meticciato sonoro: la dub degli Aswad rincorre le escursioni dei Massive Attack ma non si dimentica mai dai ritmi sincopati della Giamaica. La McFarlane, d’altronde, propone una musica che è migrante nel suo più intimo DNA, e non potrebbe fare altrimenti. Stoke the Fire, invece, è si dichiara per quello che è: jazz nella sua più moderna incarnazione. Stesso discorso per Allies and Enemies, una composizione semplice ma al tempo stesso potente che pone il “Black Atlantic Jazz” di Zara McFarlane come nuovo metro di paragone per un’intera scena. Mi piace immaginare, per concludere, come sarebbe potuta essere l’esistenza dei protagonisti di The Lonely Londoners (1956) di Sam Selvon se avessero avuto come colonna sonora Arise… la musica d’altronde è un viaggio a cavallo dell’immaginazione… (Matteo Ceschi)

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GABRIELE MITELLI O.N.G., CRASH, PARCO DELLA MUSICA RECORDS 2017

Nuovo lavoro di Gabriele Mitelli, interessantissimo trombettista ormai bel noto sul panorama nazionale, Crash è un album che, per scelta, convoglia la creatività del giovane bresciano in tre lunghe suite piuttosto che in singoli pezzi: questo per lasciare più spazio possibile alla pratica dell’improvvisazione, per favorire la libertà d’espressione, per assecondare il flusso di quanto prende corpo strada facendo. Il risultato è un percorso musicale d’assieme – Mitelli è qui inserito in un quartetto di prim’ordine – a cui l’ascoltatore si avvicina prudente, accolto (si fa per dire) da tutta la ruvidezza noise che costituisce l’inizio di Frequency, ma nel quale non può che rimanere intrappolato, grazie ad un’esplosione di creatività ambiziosissima e perfettamente riuscita, in pieno controllo. Le tre suite, passando per incursioni rock e post punk, trovano il modo di omaggiare Sun Ra (anche con richiami espliciti a Lanquidity) e, scelta audace e inaspettata, A tratti dei C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti. Il quartetto all’opera è di altissima qualità, ed è responsabile della creazione di atmosfere acide e psichedeliche: oltre allo stesso Mitelli (pocket trumpet ed elettronica) troviamo alla batteria Cristiano Calcagnile, insieme al quale Mitelli aveva partecipato a Multikulti Cherry On (Caligola Records 2016), bellissimo progetto ispirato a Don Cherry, che del resto sembra essere una delle principali fonti d’ispirazione di questo Crash; quello che sembra un basso è invece la bellissima chitarra baritono di Gabrio Baldacci, mentre l’altra straordinaria chitarra elettrica è quella di Enrico Terragnoli. Lavoro molto denso, merita grande attenzione. (Elisa Giovanatti)

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POLARIS, POLARIS, AUTOPRODUZIONE 2016

I Polaris sono Dario Nistri (batteria e voce), Gabriel Di Maggio (sax), Mitch Coda (basso), Andrew Casa Apice (synth) e, in 5 brani, Robert Barrett (chitarra). La loro proposta è difficilmente inquadrabile, racchiude elementi di space rock, progressive, jazz e post rock, ma penso di poter dire che la componente fondante del progetto sia l’attitudine jazzistica (intesa come approccio più che come sound): ne è un macroscopico esempio l’onnipresente sax, ma l’attitudine si manifesta in moltissimi altri dettagli (i tempi, il tocco sulla batteria…) e soprattutto nella vena improvvisativa; i pezzi registrati per questo debutto nascono come vere e proprie jam session, l’attitudine ad esplorare e sperimentare liberamente emerge in ogni momento e la “band” stessa, del resto, è molto più a suo agio nel definirsi progetto piuttosto che gruppo, a riprova di un approccio jazz presente fin nel midollo. Ciò detto, è incredibile come nulla di tutto questo precluda alla altrettanto evidente presenza di numerose altre spinte ed influenze, un background eclettico (dai King Crimson fino ai nostrani Julie’s Haircut) che si respira ad ogni nota, siano quelle inquietanti dell’iniziale Lovers and Giants, quelle ossessive di Cassiopea, quelle acide di Dreamscape o quelle stratificate che compongono il raffinatissimo chiaroscuro di Bible Black, crimsoniana anche nel titolo. Siamo insomma al cospetto di un lavoro (10 pezzi in tutto) incredibilmente denso, complesso, certo non per tutti, ma che può regalare gioie ai più temerari. (Elisa Giovanatti)

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BOL&SNAH, SO?NOW?, GIGAFON RECORDS 2016

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Titolo enigmatico al limite della grafica esasperata per il progetto che vede insieme Hans Magnus “Snah” Ryan, chitarrista dei Motorpsycho e il trio norvegese prog-rock BOL composto da Tone Åse, Ståle Storløkken e Tor Haugerud. Rompendo ogni indugio, annuncio che il risultato è poetico e potente al tempo stesso, ricco, sembrerà strano vista la nazionalità dei protagonisti, di passione e passionalità. The Sidewalks, brano d’apertura, sposa alla perfezione la voce di Tone Åse, a tratti vicina alla vivacità di Kate Bush, con il wall of sound dei suoi compagni regalando l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo. Per la forma e gli arrangiamenti i sei brani più che al rock guardano alla scena free jazz, proponendo un’infinita sequenza di mood, suggerimenti melodici e ritmi incalzanti: #tahtfeeling, forse è la traccia che meglio rappresenta le intenzioni serie e battagliere dei BOL&SNAH. Un album per tutti quelli che dimostrano di possedere il coraggio e la volontà di cambiare: se ci fosse mai un equilibrio tra uomo e natura, forse lo si potrebbe trovare tra i solchi di SO?NOW? (Matteo Ceschi)

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PAOLO TARSI, FURNITURE MUSIC FOR NEW PRIMITIVES, CRAMPS/RARA RECORDS 2015

Paolo Tarsi - Furniture music for new primitives (cover)

Per gli amanti di avant pop e musica contemporanea segnaliamo oggi l’ultimo lavoro di Paolo Tarsi, compositore, organista e pianista, collaboratore di artisti quali Tullio Pericoli e Marco Tirelli, compositore di musiche per mostre di Paolo Cotani, Mario Giacomelli, Andy Warhol, autore di performance e installazioni per gallerie e musei d’arte contemporanea, allievo di Luis Bacalov negli studi di composizione di colonne sonore per il cinema. È tuttavia il rapporto con la narrazione scritta quello che Tarsi indaga in questo Furniture Music For New Primitives, uscito per la collana POPtraits Contemporary Music Collection di Cramps Music e l’etichetta Rara Records e ispirato al romanzo Le città della notte rossa (1981) di William S. Borroughs: un testo che qui è punto di riferimento soprattutto sul piano formale, con i brani di Tarsi a restituire a loro modo la scrittura sperimentale dello scrittore Beat, lo sfondo cupo delle tematiche più esistenziali, il senso di alienazione e le scorribande oniriche. Il tutto con un lavoro molto fine di scambi e influenze fra avanguardie colte e linguaggi pop. Lunghissima la lista di collaboratori, dal quartetto Junkfood a Paolo Tofani (Area), da Enrico Gabrielli (Calibro 35, ex Afterhours) a Sebastiano De Gennaro (Baustelle, Le Luci Della Centrale Elettrica), solo per fare alcuni nomi. (Elisa Giovanatti)

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CATERINA PALAZZI SUDOKU KILLER, INFANTICIDE, AUAND 2015

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Il titolo un po’ forte – con esplicito riferimento a Incestiside dei Nirvana, fra gli ispiratori di questo nuovo lavoro – è da intendere come abbandono dell’ingenuità ludica e fanciullesca per un’età adulta spesso amara, con le sue ineludibili asperità. Questo, dunque, a 5 anni di distanza dal primo album con la formazione Sudoku Killer, il pensiero che ispira Infanticide, nuova creatura di Caterina Palazzi, e che si riflette in tutte le tracce, tanto ricche di sperimentazioni ardite, dissonanze stridenti, suggestioni noise, esplosioni elettriche, quanto toccanti nelle loro dolci melodie. È un mondo sonoro incredibilmente simile a quello della Starless dei King Crimson, ostico e oscuro ma non privo di squarci lirici, e pronto a qualsiasi metamorfosi. La contrabbassista romana, vincitrice nel 2010 del Jazzit Award come miglior compositrice, non ha certo paura di osare: jazz nord-europeo, rock, musica sperimentale, grunge e rock psichedelico forniscono continue sfumature cangianti ai 5 pezzi che compongono l’album (i titoli, in giapponese, si riferiscono a giochi numerici nipponici), suite strumentali con radici ben piantate negli anni ’70 ma proiettate nel futuro. Dirompente Sudoku Killer, con il suo urlo iniziale; affascinante la scrittura di Hitori, Futoshiki e Masyu, con le sue continue invenzioni; necessaria la tregua di Nurikabe. Da sottolineare l’abilità tecnica dei componenti della formazione, oltre alla bravissima Caterina: Antonio Raia al sax, Giacomo Ancillotto alla chitarra, Maurizio Chiavaro alla batteria. Grande prova, per iniziati. (Elisa Giovanatti)

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MORPHINE, LIKE SWIMMING, RYKO 1997

MorphineLikeSwimming

Cercando di sfuggire a sterili definizioni, sarà sufficiente inserire gli statunitensi Morphine in quell’ampio, e spesso ribollente calderone sonoro, chiamato avanguardia. I trio formato da Mark Sandman (voce, basso e chitarra), Dana Colley (sax) e Billy Conway (batteria e percussioni) nel 1997, anno di pubblicazione di Like Swimming, aveva già riscosso successi di critica e pubblico senza però placare la sua vulcanica verve creativa. I fan ne erano al corrente e continuavano per questo motivo ad aumentare giorno dopo giorno. Il sound “decadente” e, per i tempi, assolutamente alieno, ben rappresentato da tracce come Early to Bed e Murder for the Money, rappresentava l’azzardo che paga e rilancia le ambizioni sonore non solo di una band ma di un intero movimento che, per scelta, ai margini del mainstream sopravviveva in nome di una visione eclettica e librera della musica. Nelle dodici tracce ci si può perdere tra improvvisazioni free jazz, exploit da cabaret, blue notes tutte blues, e richiami alla tarda età psichedelica degli Hawkwind. In questa dimensione senza costrizioni e confini fisici l’ascolto si faceva quel tanto anarchico da arrivare ad apprezzare ogni singolo sfumatura del trio di Cambridge, Massachusetts. Un disco da recuperare in gran fretta se già non ci avete messo sopra mani & orecchie. (Matteo Ceschi)

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