Milanesi con una vocazione spiccatamente europea. E si sente! I The Three Blind Mice allacciano ancora più stretti i loro legami con l’Europa che conta musicalmente, quella del Nord, quella delle idee e del coraggio discografico. Day’s Getting Dark, capitolo “svedese” (il lavoro esce per la Beluga Records di Stoccolma) della band, propone un “sound persuasivo in cinemascope” che proietta un western à la Rodriguez alle latitudini più fredde con l’intento dichiarato di sciogliere il fronte della musica mainstream. E se i pistoleri mariachi si fossero spinti fino alla tranquilla Scandinavia? Ascoltando traccia dopo traccia se ne ha la quasi certezza, datemi retta. Winter e Come Home escono dalle nebbie e fanno un inchino a Jim Jarmusch e Nick Cave lanciando un preciso monito a quanti si avvolgono nel comfort della coperta delle convenzioni: <Cari, l’inverno si farà ancora più rigido e il vostro cencio non vi proteggerà dalla bufera sonica in arrivo!>. Tra una raffica e l’altra, la band guidata da Manuele Scalia trova un pizzico di pietà bowieniana con l’acida ballad In Cold Blood… Della serie… <Non facciamo prigionieri – non chiedetecelo, per favore – ma non siamo spietati come ci dipingete!> BANG! BANG! BANG! (Matteo Ceschi)
Negli ultimi anni hai cominciato ad esplorare con i tuoi lavori anche la musica elettronica senza, però, mai abbandonare le tue radici rock. Niente demoni e dei, uscito per La Siepe Dischi nel 2021 è certamente un buon esempio di questo connubio mai scontato. Come sei arrivato a coniugare i due mondi, quello del rock da cui provieni e quello, appunto, dell’elettronica a cui approdi?
Sono sempre stato un ascoltatore curioso della musica elettronica, ma l’ho sempre sentita distante anni luce dal mio modo di vivere la musica, di trasmetterla, non sono mai riuscito a capirla fino in fondo e mi sono nutrito di cose che in qualche modo andavano a toccare il mio di mondo, per cui ho amato il primo disco dei Suicide, i New Order e certa scena post punk, senza dimenticare gli italianissimi Weimar Gesang… Ma come musicista, compositore, non mi sono mai avvicinato a “quegli” strumenti per una sorta di timore reverenziale e non li ho mai piazzati nei miei dischi. All’alba dei 50 anni qualcosa ha iniziato a cambiare ed il merito va a due artisti che apprezzo da decenni e che mi hanno spinto a vedere l’elettronica da un altro punto di vista ed in qualche modo mi hanno incoraggiato a percorrere quel sentiero fatto di sistemi binari, sto parlando di Mark Lanegan (R.I.P.) e Nick Cave. I loro ultimi dischi mi hanno fatto capire che c’è un mondo intenso, emotivo ed emozionante dietro quegli strumenti solo apparentemente freddi. Da lì ho iniziato ad esplorare e mi si è aperto un universo diverso, fatto di Moderat, The Blaze, Justice, Chet Faker e su tutti, la mia preferita, FKA TWIGS.
Mi pare di ricordare – sono pronto a una smentita – che l’appena citato Niente demoni e dei, con la copertina di Milo Manara, non sia il primo caso che ti vede collaborare con esponenti del mondo della fumetto.
Tutto è iniziato con la mia collaborazione con Tito Faraci (sceneggiatore di fumetti tra i più importanti in Italia, scrittore di romanzi, nonché mio amico) alla realizzazione della scrittura dei testi del primo disco, Le cose cambiano, dopodiché la collaborazione si è saldata a tal punto che negli ultimi due dischi è diventato ufficialmente l’autore unico dei testi delle mie canzoni. Bazzicando il mondo del fumetto, Tito, mi ha catapultato in quell’universo per me fino ad allora popolato solo dai disegni di Andrea Pazienza, Milo Manara, Max Bunker, Magnus, Jacovitti ecc…, insomma cose un po’ datate. Non capacitandomi della mia ignoranza riguardante il “moderno” campo fumettistico, mi ci sono fiondato dentro.
Cosa la musica può ricevere dalle arti figurative e cosa, a sua volta, può restituire al mondo dei disegni e dei disegnatori?
Musica e disegni sono due mondi con parecchie cose in comune: suggeriscono, aprono finestre per fantasticare o per seguire i pensieri uno dopo l’altro. Unendoli, questo meccanismo che è intrinseco nella musica e nell’arte visiva, si potenzia e si arricchisce. La musica può ricevere dalle arti figurative una nuova dimensione visiva e narrativa, mentre il fumetto può ricevere dalla musica una dimensione sonora e emozionale supplementare.
Non mi pento con quell’attacco “assassino” – Non morirò il lunedì al mattino/anche se sembra sempre di più il mio destino – Il giorno dopo l’ultimo giorno e Non basta squarciano le fantasie dell’ascoltatore all’inizio del lato B del LP. Una tripletta di intenti e ipotesi soniche che mettono alla prova i riflessi dell’ascoltatore, una vera rarità nell’attuale panorama musicale italiano. Quali suggestioni hai seguito per costruire questi tre mondi sonori?
Mi fa davvero molto piacere che ti siano piaciute, di solito, il secondo lato di un LP o, se si tratta di un CD, la quinta/sesta traccia, è il momento più critico dell’intero lavoro, si decide se andare avanti o se se ne è avuto abbastanza. La composizione della scaletta del disco ha un’importanza fondamentale, t’impegna come la realizzazione di una canzone, insomma il concepimento della scaletta di un disco è un arte… In particolare, i tre pezzi che citi sono sfaccettature di un unico intento, un intento che in realtà è l’obiettivo di tutto il lavoro. Volevamo fare un disco molto compatto, con una visione chiara e facilmente leggibile sia a livello musicale che a livello testuale, un tuffo nella decadenza new wave degli anni ’80 più scuri…
Musica e società: secondo te quale può essere oggi l’apporto concreto delle canzoni per ritrovare e risollevare una socialità quasi azzerata dall’indifferenza, dall’odio, da ritmi frenetici e, non dimentichiamolo, dal miraggio sociale dei social network? La musica, penso che tu possa condividere il mio punto di vista, è una pura esperienza di condivisione. Lo è stata nel passato, a cominciare dai Sixties con numerose protest songs e ha continuato ad esserlo nei decenni successivi.
Sono d’accordo con te, la musica può avere un ruolo importante nell’aiutare a ricostruire la socialità e a combattere l’indifferenza, l’odio e i ritmi frenetici della vita moderna. Attraverso la condivisione di esperienze ed emozioni comuni, la musica può creare un senso di comunità e connessione tra le persone. Tutti concetti e parole meravigliose, ma se non esistono i luoghi dove condividere, rimangono solo le belle parole, i bei concetti. In Italia non ci sono più i locali dove suonare! O, se ci sono, si sono ridotti a poche presenze, questo è il vero e reale problema attuale; ormai per gli artisti cosiddetti “minori” come il sottoscritto, i posti dove proporre la propria musica sono i bar, i ristoranti e via dicendo…
Tra i vari problemi che affliggono la contemporaneità sicuramente c’è la questione ambientale, una tematica che ha cominciato a interessare artisti già dal secondo dopoguerra e che continua, in varie forme, a vedere coinvolti i musicisti. Moby, tornando alla musica elettronica, è un convinto ambientalista nonché un dichiarato vegano. Qual è la tua posizione a riguardo?
Sono vegetariano dal 1990, ho svezzato i miei tre figli a suon di verdure, tofu, seytan e lenticchie, tra le proteste di nonne e pediatri. Ho una macchina a gas da anni, da prima che il green diventasse di moda e non ho MAI votato PD. Mi sembra di avere una posizione molto chiara…
Il mondo della musica e la professione del musicista come sono cambiati dopo la pandemia e il lockdown?
Il mondo della musica in cui mi muovo io è stato quasi completamente spazzato via dalla pandemia. Un po’ come per i piccoli negozi, strozzati dai lockdown prolungati, dalle grandi catene e da Amazon, anche noi “piccoli” musicisti ci siamo trovati quasi costretti a chiudere baracca e burattini… Molti dei locali dove suonavamo hanno chiuso, molti di quelli che sono rimasti aperti si sono riconvertiti puntando sul cibo e non se la sentono di rischiare una serata che non necessariamente andrà bene in termini di presenze. Oggi io suono molto più di prima in posti piccoli, piccolissimi. Potrebbe essere l’inizio di una nuova tendenza in stile americano che ci porterà ad avere in ogni bar un palco e una band o un musicista che suona? Non so, sono poco ottimista sull’umanità in genere e temo che finiremo per suonare facendo da contorno alla gente che mangia seduta ai tavoli suscitando in loro più fastidio che altro…
(Matteo Ceschi)
– Un ringraziamento speciale a Dischi Volanti per avere ospitato lo shooting fotografico –
Sono presenti nel disco – e ciò è un bene, a mio modesto e musicale parere – gli anni Ottanta troppo spesso bistrattati e frettolosamente dimenticati. Bilancia che cita i CCCP è un’esplosione di ricordi che aiuta l’ascoltatore a ritrovare una propria profondità storica capace di tenerlo a galla nel presente. Dei tardi Eighties c’è sicuramente la spavalderia creativa ma un posto speciale in Sinonimi contrari se lo ritagliano un rock à la Bluevertigo e un’elettronica dal DNA assolutamente aggregante e a tratti visionaria (parte del merito al produttore Valerio Gaffurini). Consci di muoversi su una costruzione sonica ben solida, i Gaze of Lisa azzardano anche escursioni in prossimità del metal con Io contro. Un esordio, quello della band di Matera, che dovrebbe lasciare tutti stupiti per come si è palesato alle nostre orecchie e che potrebbe farci riconciliare per un po’ con la Musica. (Matteo Ceschi)
Costretto ad un inevitabile stop a causa della pandemia di covi-19 che lo ha toccato personalmente, Jackson Browne, il padre dei MUSE (Musicians United for Safe Energy) e dei concerti NO NUKES, si appresta a dare alle stampe un singolo che anticipa l’album previsto per il 2021. Sia sul lato A che sul lato B compaiono canzoni che guardano ancora una volta con interesse e ed evidente preoccupazione all’ambiente e alla sua salvaguardia. In particolare Downhill from Everywhere, pubblicato on-line in concomitanza con il recente Earth Day a seguito di A Litlle Soon to Say, suona come un potente grido di allarme contro l’inquinamento da plastica, tematica urgente e quanto mai attuale. La canzone è stata inserita nella soundtrack del documentario ecologista di Deia Schlosberg, The Story of Plastic, andato in onda su Discovery Channel proprio il 22 aprile in concomitanza con la Giornata Mondiale della Terra. Rock ballad che non si discosta dalla tradizione browneana, Downhill from Everywhere mostra ancora una volta tutta la potenza e l’indipendenza creativa del suo autore e al contempo ci ricorda gli obblighi e i doveri che legano ciascuno di noi al pianeta che ci ospita. Un’uscita discografica militante e al passo con i tempi che guarda al presente senza distogliere lo sguardo e le note dal futuro! (Matteo Ceschi)
Ciò che nell’album di debutto delle gemelle franco-cubane aveva lasciato a bocca aperta, inventiva, meltin’ pot di stili e riferimenti (hip-hop, jazz, elettronica, world music si rincorrono in continuazione) ed emozioni forti, in questo secondo lavoro non stupisce più, ma si consolida. Gli effetti speciali hanno fatto posto a uno stile ben riconoscibile, e per due ragazze di 21 anni non è roba da poco. In Ash Lisa-Kaindé e Naomi Diaz (le Ibeyi) si concentrano un po’ meno sulla forma, ma puntano sopratutto sul contenuto. Il secondo album è quindi un veicolo di comunicazione “politica”, incentrata in particolare su femminismo e diritti civili. Il primo tema è affrontato ad esempio in No man is big enough for my arms, che contiene un frammento di un discorso di Michelle Obama: “La misura di ogni società viene data da come tratta le donne e le ragazze”, frase che si ripete in loop in sottofondo per tutto il brano. Transmisison/Michaellon è una canzone di 7 minuti divisa in più parti, la prima con la bellissima fusione di voci di Lisa-Kaindé, Naomi e la cantautrice e musicista americana Meshell Ndegeocello (anche al basso) accompagnata solo da un leggero piano e dall’effetto “fruscio da vinile”, la seconda con la voce della mamma delle gemelle che in spagnolo cita una parte del Diario di Frida Kahlo (altra icona del femminismo) sulla follia, la terza un crescendo elettronico-percussivo: un brano articolato, in cui le Ibeyi mostrano tutto il loro talento. In Deathless, con l’aiuto di squarci del sax suonato da Kamasi Washington Lisa-Kaindé ricorda la sconvolgente vicenda che la vide protagonista all’età di 16 anni in Francia: venne arrestata perché accusata ingiustamente di essere una spacciatrice e una consumatrice di droga. La polizia la terrorizzò con minacce e la insultò solo per il colore della sua pelle. Deathless diventa quindi una sorta di inno alla resistenza dai pregiudizi. La titletrack, che conclude il disco, è invece contro la politica di chiusura di Trump e, come in altre canzoni di questo e del precedente disco, è cantata in parte in yoruba, lingua che gli schiavi deportati da Nigeria e Benin continuarono a tramandare nei Caraibi e in Brasile, che fa parte della cultura della famiglia Diaz. Le idee di Lisa e Naomi non sono però mai espresse con rabbia, ma con toni pacati intendono sempre stimolare riflessioni. Canzoni pulite, voce e tastiera, come nell’emozionante Waves, si alternano a percussioni ossessive (Away away, che insieme all’iniziale I carried for years, sono una sorta di anello di congiunzione con il precedente album) o più vivaci come in I wanna be like you, dolci (simulando un infantile battito di mani in Vaic), hip-hop (Me voi, con la rapper spagnola Mala Rodriguez): mondi sonori, atmosfere uniche create dalla commistione di voci, strumenti acustici e “trucchi elettronici” che vanno testate di persona più che raccontate. Buon ascolto, allora. (Katia Del Savio)
Si torna indietro nei nebbiosi e uggiosi anni Novanta con We Dissolve di Chrysta Bell, artista poliedrica che può vantare un estimatore come il regista David Lynch che l’ha voluta a recitare nella nuova e attesissima serie di Twin Peaks dopo numerosi progetti discografici realizzati in tandem. Lo si intuisce già da Heaven, prima traccia del disco, che non lascia dubbio a riguardo e se ne ha la certezza scorrendo velocemente i nomi di alcune guest: il produttore John Parish e, scusate se è poco, Adrian Utley dei Portishead. Il sound è quello di un pop votato alla contaminazione che cerca il “guizzo assassino” nell’incerto equilibrio del jazz e nella fredde certezze dell’elettronica. Gravity, il singolo che anticipa l’album e che certo non passerà inosservato, possiede nella sua anima “artificiale” il calore della musica da camera. Planet Wide, così lasciva e imprevedibile nella sua aggressività sonora, non ha mai smesso di piacermi fin dal primo istante in cui vi ho posato sopra orecchio. Detto ciò, non grido certo al miracolo anche se sono conscio di avere in cuffia un album solido e ben realizzato che non manca certo di un paio di acuminate frecce per trapassare il muro dell’indifferenza sonora che, ahimè, troppo spesso ci circonda e ci rende pigri di fronte all’esplorazione sonora. (Matteo Ceschi)
Se non fossero danesi di Copenaghen, li si direbbe degli hippy californiani. Il loro “urban folk-rock” suona come un incredibile mix tra i Love di Arthur Lee, creature dei Sixties, per l’appunto, e i primi REM, band evidentemente legata all’eredità di quel magico decennio per la storia del rock. Il quartetto esplode e convince l’ascoltatore sull’attacco di Wake Up Dreaming, terza traccia dell’album, capace di rendere attuale con sorprendente semplicità e nuovamente “spendibile” l’insegnamento delle sopraccitate band. Tutto viene fatto all’insegna di una pacata sobrietà sonora che ammalia e lusinga il pubblico fino a farlo capitolare in coincidenza del brano “mariachi” Silence Is Broken, composizione a suo modo epica che guarda ammirata al concetto di frontiere inteso come un ventaglio di nuove scoperte. In quest’ottica avventurosa, almeno sul piano sonoro, sbocciano e inebriano il critico Ready to Go e Fire Roses. Inutile, girarci attorno, i Black Seagulls, sono proprio una bella sorpresa scovata sul web. Vivamente consigliati! (Matteo Ceschi)
Una voce non eccessivamente roca – quel tanto da esaltare un mood destinato ad aumentare la ruvidezza della scena hip-hop nostrana – basi dal divertito sapore “casserole” e l’ambizione a spingere il rap nella “dimensione più vissuta” del blues, sono le principali skills dell’album dell’artista torinese. Con questo lavoro autoprodotto, Pula+, una volta annunciato di essere libero dalle altrui volontà – in passato, come ricordato ironicamente nel titolo del disco, tante importanti collaborazioni – può imbracciare la chitarra chiamando alla sua corte quei colleghi capaci nella sua visione artistica di sostenerlo nella non facile impresa di definirsi agli occhi degli altri: ecco allora Ezra, già collaboratore dei Casino Royale, affiancarlo per la produzione dell’album, e i due chitarristi Buzzy Lao (INRI) e Anthony Sasso (degli Anthony Laszlo) a irrobustirne l’evidente spinta live. Inutile cercare di stilare la classifica dei migliori brani della tracklist, qualunque scelta facciate il risultato sarà sempre soddisfacente. A me sono piaciute per l’impronta internazionale e la freschezza dei suoni Cerchio di fuoco e Cappello bianco. (Matteo Ceschi)
Non importa che siate fans della scena alternative inglese o meno, Risk to Exist vi conquisterà fin dalle prime note. Pur mantenendo una vocazione puramente indie il disco trasuda un pop adulto a cui pochi (e sfortunati) potranno resistere. Prodotto da Tom Schick (Wilco, Beck, White Denim), l’ultimo lavoro della band di Newcastle attinge al miglior campionario di suoni degli ultimi trent’anni portandoci in un ubriacante vortice di terapeutici ricordi sonori. Se What Equals Love? andrebbe fatta studiare alle giovani leve come un modello molto vicino alla perfezione di “canzone rock da ballare”, I’ll Be Around riaccende al contempo la passione per le melodie degli anni Ottanta così ben rappresentata da Nick Kershaw e insinua con i fraseggi di tromba sul finale il dubbio per una fusion tutt’altro che scontata. A fare la differenza, rispetto agli appena citati Eighties, quel “risk to exist” del titolo, chiaro riferimento al precario equilibrio di una contemporaneità in bilico sul baratro. The Hero, track dal titolo inequivocabile, con la brevissima intro orientaleggiante e le sue ritmiche un po’ à la Chic, è, forse, il brano che meglio rappresenta l’attitude schierata della band e la sua voglia di farsi sentire: all’indifferenza di fronte alla tragedia delle migrazioni dal Sud del mondo ci sarà sempre un’inconsapevole vocazione da eroe nelle persone più insospettabili. Risk to Exist, è un inno all’empatia, a quel sentimento troppo spesso smarrito da un’umanità soffocata da muri, barriere e fake news. I Maxïmo Park ritengono evidentemente possibile un’alternativa alla pericolosa direzione intrapresa ed usano il più diretto idioma della musica, il pop, per comunicare le loro idee. (Matteo Ceschi)
Sono passati ad occhio e croce due anni dall’ultimo lavoro del musicista siciliano. Mese più o mese meno. Ed ecco, quando meno te lo aspetti, che Cesare Basile torna a farci visita con un album densamente popolato dalle voci della terra d’origine: U fujutu su nesci chi fa? va però ben oltre la semplice claustrofobia dialettale per spingersi ancora una volta verso una definizione che non potrebbe essere altro che mediterranea. Il Mare nostrum, intendiamoci, è inteso da Basile come un’area comune d’incontro senza limitazioni al meticciato culturale e alla comunicazione, un concetto egregiamente espresso da un brano come Ljatura, un’ipnotica melodia che idealmente si protende ad abbracciare la saggezza dei griots africani e il sudore esistenziale dei bluesmen neri americani. Se con U scantu la tradizione sonora isolana per un istante si rafforza, bastano pochi minuti per tornare con la title track ad abbracciare le infinite sfumature della world music che strizza l’occhio al rock. Senza cercare forzati paragoni con cose già ascoltate, il disco di Cesare Basile si presenta come null’altro che un invito a spogliarci dei pregiudizi per poter infine ballare più liberi e leggeri. (Matteo Ceschi)