Anticipato dal video dalle atmosfere a tratti allucinate e post-realiste di Nari Nari, brano che sembra strizzare l’occhio da una parte a Damon Albarn e dall’altro ai classici dei Depeche Mode, esce il nuovo EP dei francesi Holbrook. Quattro brani per ribadire nel mondo post-pandemico che c’è ancora molto bisogno di musica e occasioni di incontro. Lontani dalla polvere del tempo capace solo di incattivire le persone al bistrot, il trio di multi-strumentisti parigini si agita tra un post-punk morbido e sapienti escursioni indie rock spingendo lo sguardo curioso dell’arte verso gli spazi in ombra della contemporaneità. Borders e Fantasy, il più interessante momento del lavoro con i suoi passaggi narrativi-ritmici, esplicano al meglio questa volontà di abbandonare convenzioni e mode e di suonare sinceramente e decisamente pop(ular). Lo sguardo acuto degli Holbrook è al tempo stesso umano e alieno – ecco una possibile spiegazione del titolo – nella speranza di recuperare e rivalutare quello che nel frattempo è sfuggito per noia e disattenzione alle persone. La già citata alternanza di mood ritmici e la “veste canora” camaleontica di Ali Chafik segnano il successo di un lavoro che non mostra mai segni di stanchezza, anzi, si presenta come un incentivo alla creatività per tutti quelli che si mettessero all’ascolto o volessero salire su un palco per fare musica. (Matteo Ceschi)
Elizabeth Swann, Carina Barbossa, Angelica Teach, Anamaria… Non solo Jack Sparrow, quindi. Se nella fortunata serie hollywoodiana Pirati dei Caraibi, la presenza femminile svolge un ruolo importante nella narrazione, ancor di più lo è nell’album d’esordio degli Out of the Blueintitolato Pirate Queens. Il disco nato da un’idea del polistumentista, compositore, produttore e arrangiatore Giovanni Pollastri e della cantante newyorkese (trapianta in Italia) Annie Saltzman Pini, infatti, esplora in musica le gesta e le scorribande di famose donne pirata. Abbracciata la via degli oceani e quella di una vita fuori legge, le signore cantate da Giovanni e Annie spiccano – a cominciare dall’irlandese Anne Bonny, protagonista dell’omonimo singolo – per le loro vulcaniche personalità e nulla invidiano ai colleghi maschi che terrorizzavano i mari. Anne Bonny, la open track, una sorta di biglietto da vista per il duo, accoglie l’ascoltatore con reminiscenze irish imponendosi con il suo “fluttuante” e a tratti epico folk rock. Lady Mary Killgrew, dedicata alla “piratessa” inglese del XVI secolo, invece, sembra volere fare incontrare in mezzo al Mare dei Sargassi Suzanne Vega e Patti Smith. Sadie Farrell – al momento nessuna parentela risulta con il cantante dei Jane’s Addiction – è il brano che, per i suoi “spruzzi” di blues psichedelico, potrebbe essere perfetto per il prossimo episodio di Pirati die Caraibi. A Hollywood c’è qualcuno in ascolto? Nel complesso, il lavoro di Giovanni Pollastri e Annie Saltzman Pini suona arrembante e coraggioso in ogni suo momento. A chi si mette all’ascolto non resta che capire se, tra le tracce di Pirate Queens, siano nascosti indizi per l’isola del tesoro. (Matteo Ceschi)
Milanesi con una vocazione spiccatamente europea. E si sente! I The Three Blind Mice allacciano ancora più stretti i loro legami con l’Europa che conta musicalmente, quella del Nord, quella delle idee e del coraggio discografico. Day’s Getting Dark, capitolo “svedese” (il lavoro esce per la Beluga Records di Stoccolma) della band, propone un “sound persuasivo in cinemascope” che proietta un western à la Rodriguez alle latitudini più fredde con l’intento dichiarato di sciogliere il fronte della musica mainstream. E se i pistoleri mariachi si fossero spinti fino alla tranquilla Scandinavia? Ascoltando traccia dopo traccia se ne ha la quasi certezza, datemi retta. Winter e Come Home escono dalle nebbie e fanno un inchino a Jim Jarmusch e Nick Cave lanciando un preciso monito a quanti si avvolgono nel comfort della coperta delle convenzioni: <Cari, l’inverno si farà ancora più rigido e il vostro cencio non vi proteggerà dalla bufera sonica in arrivo!>. Tra una raffica e l’altra, la band guidata da Manuele Scalia trova un pizzico di pietà bowieniana con l’acida ballad In Cold Blood… Della serie… <Non facciamo prigionieri – non chiedetecelo, per favore – ma non siamo spietati come ci dipingete!> BANG! BANG! BANG! (Matteo Ceschi)
Negli ultimi anni hai cominciato ad esplorare con i tuoi lavori anche la musica elettronica senza, però, mai abbandonare le tue radici rock. Niente demoni e dei, uscito per La Siepe Dischi nel 2021 è certamente un buon esempio di questo connubio mai scontato. Come sei arrivato a coniugare i due mondi, quello del rock da cui provieni e quello, appunto, dell’elettronica a cui approdi?
Sono sempre stato un ascoltatore curioso della musica elettronica, ma l’ho sempre sentita distante anni luce dal mio modo di vivere la musica, di trasmetterla, non sono mai riuscito a capirla fino in fondo e mi sono nutrito di cose che in qualche modo andavano a toccare il mio di mondo, per cui ho amato il primo disco dei Suicide, i New Order e certa scena post punk, senza dimenticare gli italianissimi Weimar Gesang… Ma come musicista, compositore, non mi sono mai avvicinato a “quegli” strumenti per una sorta di timore reverenziale e non li ho mai piazzati nei miei dischi. All’alba dei 50 anni qualcosa ha iniziato a cambiare ed il merito va a due artisti che apprezzo da decenni e che mi hanno spinto a vedere l’elettronica da un altro punto di vista ed in qualche modo mi hanno incoraggiato a percorrere quel sentiero fatto di sistemi binari, sto parlando di Mark Lanegan (R.I.P.) e Nick Cave. I loro ultimi dischi mi hanno fatto capire che c’è un mondo intenso, emotivo ed emozionante dietro quegli strumenti solo apparentemente freddi. Da lì ho iniziato ad esplorare e mi si è aperto un universo diverso, fatto di Moderat, The Blaze, Justice, Chet Faker e su tutti, la mia preferita, FKA TWIGS.
Mi pare di ricordare – sono pronto a una smentita – che l’appena citato Niente demoni e dei, con la copertina di Milo Manara, non sia il primo caso che ti vede collaborare con esponenti del mondo della fumetto.
Tutto è iniziato con la mia collaborazione con Tito Faraci (sceneggiatore di fumetti tra i più importanti in Italia, scrittore di romanzi, nonché mio amico) alla realizzazione della scrittura dei testi del primo disco, Le cose cambiano, dopodiché la collaborazione si è saldata a tal punto che negli ultimi due dischi è diventato ufficialmente l’autore unico dei testi delle mie canzoni. Bazzicando il mondo del fumetto, Tito, mi ha catapultato in quell’universo per me fino ad allora popolato solo dai disegni di Andrea Pazienza, Milo Manara, Max Bunker, Magnus, Jacovitti ecc…, insomma cose un po’ datate. Non capacitandomi della mia ignoranza riguardante il “moderno” campo fumettistico, mi ci sono fiondato dentro.
Cosa la musica può ricevere dalle arti figurative e cosa, a sua volta, può restituire al mondo dei disegni e dei disegnatori?
Musica e disegni sono due mondi con parecchie cose in comune: suggeriscono, aprono finestre per fantasticare o per seguire i pensieri uno dopo l’altro. Unendoli, questo meccanismo che è intrinseco nella musica e nell’arte visiva, si potenzia e si arricchisce. La musica può ricevere dalle arti figurative una nuova dimensione visiva e narrativa, mentre il fumetto può ricevere dalla musica una dimensione sonora e emozionale supplementare.
Non mi pento con quell’attacco “assassino” – Non morirò il lunedì al mattino/anche se sembra sempre di più il mio destino – Il giorno dopo l’ultimo giorno e Non basta squarciano le fantasie dell’ascoltatore all’inizio del lato B del LP. Una tripletta di intenti e ipotesi soniche che mettono alla prova i riflessi dell’ascoltatore, una vera rarità nell’attuale panorama musicale italiano. Quali suggestioni hai seguito per costruire questi tre mondi sonori?
Mi fa davvero molto piacere che ti siano piaciute, di solito, il secondo lato di un LP o, se si tratta di un CD, la quinta/sesta traccia, è il momento più critico dell’intero lavoro, si decide se andare avanti o se se ne è avuto abbastanza. La composizione della scaletta del disco ha un’importanza fondamentale, t’impegna come la realizzazione di una canzone, insomma il concepimento della scaletta di un disco è un arte… In particolare, i tre pezzi che citi sono sfaccettature di un unico intento, un intento che in realtà è l’obiettivo di tutto il lavoro. Volevamo fare un disco molto compatto, con una visione chiara e facilmente leggibile sia a livello musicale che a livello testuale, un tuffo nella decadenza new wave degli anni ’80 più scuri…
Musica e società: secondo te quale può essere oggi l’apporto concreto delle canzoni per ritrovare e risollevare una socialità quasi azzerata dall’indifferenza, dall’odio, da ritmi frenetici e, non dimentichiamolo, dal miraggio sociale dei social network? La musica, penso che tu possa condividere il mio punto di vista, è una pura esperienza di condivisione. Lo è stata nel passato, a cominciare dai Sixties con numerose protest songs e ha continuato ad esserlo nei decenni successivi.
Sono d’accordo con te, la musica può avere un ruolo importante nell’aiutare a ricostruire la socialità e a combattere l’indifferenza, l’odio e i ritmi frenetici della vita moderna. Attraverso la condivisione di esperienze ed emozioni comuni, la musica può creare un senso di comunità e connessione tra le persone. Tutti concetti e parole meravigliose, ma se non esistono i luoghi dove condividere, rimangono solo le belle parole, i bei concetti. In Italia non ci sono più i locali dove suonare! O, se ci sono, si sono ridotti a poche presenze, questo è il vero e reale problema attuale; ormai per gli artisti cosiddetti “minori” come il sottoscritto, i posti dove proporre la propria musica sono i bar, i ristoranti e via dicendo…
Tra i vari problemi che affliggono la contemporaneità sicuramente c’è la questione ambientale, una tematica che ha cominciato a interessare artisti già dal secondo dopoguerra e che continua, in varie forme, a vedere coinvolti i musicisti. Moby, tornando alla musica elettronica, è un convinto ambientalista nonché un dichiarato vegano. Qual è la tua posizione a riguardo?
Sono vegetariano dal 1990, ho svezzato i miei tre figli a suon di verdure, tofu, seytan e lenticchie, tra le proteste di nonne e pediatri. Ho una macchina a gas da anni, da prima che il green diventasse di moda e non ho MAI votato PD. Mi sembra di avere una posizione molto chiara…
Il mondo della musica e la professione del musicista come sono cambiati dopo la pandemia e il lockdown?
Il mondo della musica in cui mi muovo io è stato quasi completamente spazzato via dalla pandemia. Un po’ come per i piccoli negozi, strozzati dai lockdown prolungati, dalle grandi catene e da Amazon, anche noi “piccoli” musicisti ci siamo trovati quasi costretti a chiudere baracca e burattini… Molti dei locali dove suonavamo hanno chiuso, molti di quelli che sono rimasti aperti si sono riconvertiti puntando sul cibo e non se la sentono di rischiare una serata che non necessariamente andrà bene in termini di presenze. Oggi io suono molto più di prima in posti piccoli, piccolissimi. Potrebbe essere l’inizio di una nuova tendenza in stile americano che ci porterà ad avere in ogni bar un palco e una band o un musicista che suona? Non so, sono poco ottimista sull’umanità in genere e temo che finiremo per suonare facendo da contorno alla gente che mangia seduta ai tavoli suscitando in loro più fastidio che altro…
(Matteo Ceschi)
– Un ringraziamento speciale a Dischi Volanti per avere ospitato lo shooting fotografico –
Un brano che ha fatto la storia della musica (non solo house) internazionale, un brano che ancora oggi ad anni di distanza si mantiene fresco e attuale sia nella sua forma originale che nei nuovi remix. Un brano a cui tutti dovrebbero fare riferimento quando si apprestano a parlare di successi discografici.
Can We Live dei Jestofunk (con il featuring di Ce Ce Rogers) torna in vinile sugli scaffali dei negozi di dischi – una lode a quelli, numerosi, che resistono lungo tutto lo stivale – grazie alla storica Irma Records e alla Rec In Pause, l’etichetta di Francesco “Checco” Farias, uno dei membri fondatori del gruppo.
Inutile girarci intorno, Can We Live possiede quel pizzico di atmosfera dark à la John Carpenter che continua a dare all’ascoltatore un senso di thrilling che gli permette di assaporare il gusto del proibito senza correre rischi. La profondità delle basse della traccia, un tocco che ha fatto scuola in giro per il mondo negli ultimi decenni, si mantiene potente e ipnotica anche nel remix Mandrillapella, tanto da spingere l’atmosfera da club nella direzione di una liturgia laica e aggregante: il DJ officia un rito collettivo dalle profondità della notte dispensando ai clubbers scarne ostie ritmiche. Più morbido ma non per questo conciliante, il Soul Chemistry Mix. La volontà del ritmo sia fatta! Andate e portate a casa nuove e rinnovate pulsioni! (Matteo Ceschi)
Sono presenti nel disco – e ciò è un bene, a mio modesto e musicale parere – gli anni Ottanta troppo spesso bistrattati e frettolosamente dimenticati. Bilancia che cita i CCCP è un’esplosione di ricordi che aiuta l’ascoltatore a ritrovare una propria profondità storica capace di tenerlo a galla nel presente. Dei tardi Eighties c’è sicuramente la spavalderia creativa ma un posto speciale in Sinonimi contrari se lo ritagliano un rock à la Bluevertigo e un’elettronica dal DNA assolutamente aggregante e a tratti visionaria (parte del merito al produttore Valerio Gaffurini). Consci di muoversi su una costruzione sonica ben solida, i Gaze of Lisa azzardano anche escursioni in prossimità del metal con Io contro. Un esordio, quello della band di Matera, che dovrebbe lasciare tutti stupiti per come si è palesato alle nostre orecchie e che potrebbe farci riconciliare per un po’ con la Musica. (Matteo Ceschi)
Nemmeno il maltempo li ha fermati! Arrivati in ritardo sotto la pioggia battente all’Arci Bellezza di Milano, dopo un velocissimo sound-check – 10 minuti annunciati dal ruggito del basso di Andreas Miranda – i The Third Sound hanno solo atteso le ultime note del live di Kane Nero per far esplodere subito la sala da ballo con la loro miscela di richiami psichedelici e schegge post-new wave. I Velvet Underground incontrano i Grateful Dead sul palco! Un’epica cavalcata sonora iniziata con un brano strumentale e proseguita con Your Love Is Evol estratto da First Light, il loro ultimo LP per FUZZ CLUB. Il tempo sembra perdere significato… Le chitarre di Hakon Aðalsteinsson e Robin Hughes sono come lancette di orologi impazzite… Perdersi è un piacere… per poi ritrovarsi ai piedi del palco a chiacchierare con il batterista Fred Sunesen e il collega musicista Andreas.
Appena ci si posa orecchio, si comincia a provare un attaccamento a questo disco e a nutrire per esso e per la sua autrice un affetto sincero. Proserpine, nuovo creatura di Augustine/Sara Baggini, colpisce per la sua schietta sincerità che trasporta l’ascoltatore verso un cosmo personale in delicato equilibrio tra ciò che la vita dispensa e ciò che, sotto la luce del sole, o se preferite quella riflessa della luna, la stessa vita decide di ritardare o, persino, si rifiuta di dispensare. È un gioco quotidiano con le esistenze quello intrapreso da Augustine insieme a Fabio Ripanucci e Daniele Rotella e a un pugno di altri artisti per scoprire quanta generosità si nasconda tra le note. Rispetto al precedente lavoro Grief and Desire del 2018, in Proserpine le chitarre si ritagliano uno spazio maggiore incidendo a chiare lettere il loro nome nei solchi: lo si intuisce fin dall’attacco della prima traccia Tower Stones, un creatura fantasy la cui anima sonora pare dividersi tra monolitici riferimenti a Kate Bush e slanci verso i mondi sonici bazzicati da PJ Harvey e Björk. La tetra How to Cut Your Veins Correctly prosegue il cammino spingendo Augustine verso un dark teatrale à la Tim Burton – il brano non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di Sweeney Todd! Luce e ombre. Chiaro e scuro. La vita, però, scorre come una ninnananna verso le Good News e la conclusione di album decisamente sopra la media. (Matteo Ceschi)
Recital elettrico. Effetto sonoro (ma anche visivo, quello scelto per il titolo dagli ALAN+, Anamorfosi). Avanti. Traccia dopo traccia. Chiedersi quale siano i riferimenti sonori è un esercizio costante che accompagna piacevolmente l’ascolto. Da Firenze, Tony Vivona e Alessandro Casini affrontano la contemporaneità pandemica e post-pandemica con lo spirito dei pionieri di un tardo krautrock che guarda alle malinconie e ai tormenti di Mark Lanegan. Forse in Anamorfosi potremmo addirittura sentire la lezione magistrale degli OfflagaDiscoPax e di una classica contemporanea pacata ma mai arrendevole à la Satie. La title track con le note cadenzante suonate al piano che accompagnano le punture elettriche della chitarra di Alenssando Casini… e Tengo Traccia con quel suo spleen tutto oriental-grunge… esplodono fresche e delicatamente violente come un risveglio frizzante, di quelli che fanno rizzare i peli su tutto il copro… Fino all’ultimo respiro, viene da sospirare citando un’altra traccia, smuovendo la coscienza del giorno. (Matteo Ceschi)
Torna. Torna e ci sorprende. Torna. Natura inquieta e sincretica, Gerardo Balestrieri, visionario musicista cittadino di una Metropolis senza quartieri e confini, per Electro Gipsy Pandemika, torna alle origini. Torna a quella Germania che lo ha visto nascere nel 1971, quella stessa terra che all’elettronica ha saputo trovare un’anima grazie alle cure attente ed affettuose di Ralf Hütter e Florian Schneider. La scelta dell’elettronica, quindi, torna! Eccome se torna! Torna, lo si deve ammettere, tanto più che il disco esce in un periodo di diffusa e persistente tempesta elettrica sul genere umano. Elettricità – Neuroni – Sinapsi – Connessioni – Cortocircuito mediatico – Inquietudine – Ancora Elettricità… Torna. Così come tornano nelle dodici tracce di Electro Gipsy Pandemika tutte le esperienze migranti (e multi-culturali) di Balestrieri. Frammenti di vite in grado di abbracciare suoni elettronici, house music e tecno del Nord con lo scanzonato piglio del Mediterraneo. Tornano, manco a farlo apposta, Anti Social Network e Paracetamolo. Torna qua e là il fascino irresistibile del French Touch (Les Escargots). Ma anche quello mai sopito per l’Oriente e le sua irresistibili sirene (Patanjali). Lui Gerardo Balestrieri… torna e… (ri)torna… per stemperare solitudini e malinconie e restituire all’ascoltatore un senso di (ri)trono alla vita che si prefigura già come un assaggio esagerato del domani. (Matteo Ceschi)