Tag Archives: nu-soul

SUDAN ARCHIVES, ATHENA, STONES THROW 2019

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Era dai tempi dei Massive Attack e di Erykah Badu che non mi capitava di mettere orecchio su un prodotto musicale così fresco e votato al futuro. La statunitense Sudan Archives con Athena non solo porta una ventata di innovazione nel panorama pretenziosamente hipster della black music degli ultimi anni, ma spinge il genere – e più in generale l’intrattenimento sonoro – verso una ritrovata consapevolezza nei propri mezzi. Down On Me, non solo invita le nostre voglie musicali a palesarsi e a sbirciare al di là delle mode ma riallaccia concretamente il confronto tra artista e pubblico. La scelta del violino – che Sudan Archives condivide, ad esempio, con jazzisti del calibro di Ben Williams e Ambrose Akinmusire – solo apparentemente scoraggia l’ascolto: in realtà l’uso sapiente dello strumento reso celebre da Vivaldi (doveroso citare Black Vivaldi Sonata) regala ad ognuna delle composizioni dell’album un tocco etereo sufficientemente distante per fare viaggiare la mente di chi si mette in ascolto. Così la libertà d’espressione dell’artista si sovrappone quasi perfettamente a quella del pubblico rompendo ogni schematismo discografico. Athena è l’album che in molti aspettavano di aver tra le mani da tempo… Forse non tutto è perduto… (Matteo Ceschi)

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GENERIC ANIMAL, GENERIC ANIMAL, LA TEMPESTA DISCHI 2018

Il primo disco solista di Luca Galizia, ventiduenne già chitarrista dei Leute che si nasconde dietro il progetto Generic Animal, è per la verità un lavoro di squadra: i testi musicati da Luca arrivano nientemeno che dalla penna di Jacopo Lietti dei Fine Before You Came mentre l’ottima produzione è stata curata da Marco Giudici e Adele Nigro (Halfalib, Any Other). Le tante mani all’opera però non inficiano l’immediatezza del risultato: Generic Animal è un lavoro fresco e insieme malinconico, sfrontato e insieme vulnerabile, proprio come la voce di Luca. È anche stralunato e preciso: l’andamento stiracchiato della voce, le metriche originali, i ritmi sbilenchi e sincopati, i testi nudi e diretti, inizialmente nascondono sotto un’apparenza lo-fi quelle che sono invece scelte più che ragionate; solo dopo un ascolto più attento tutto questo diventa un preciso intento, un utilizzo creativo e interessante di stilemi dalla provenienza più disparata (hip-hop, soul, anche jazz), un impianto sonoro assolutamente contemporaneo e internazionale, mentre proprio quella sensazione irrisolta che deriva da questo insieme tanto sgraziato di parole e arrangiamenti finisce per costituire grande parte del fascino dell’album. L’atmosfera urbana, il grigiore, l’asfalto, la pioggia, ma anche tanta vita e tanto cuore, insomma la quotidianità che si fa racconto, completano poi il quadro di un ottimo lavoro, che può sicuramente fare presa sul pubblico. (Elisa Giovanatti)

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ANI DIFRANCO, BINARY, RIGHTEOUS BABE/AVELIN REC. 2017

 

Ani, Milano, early July 2017 72
Molta acqua sotto il ponte è fluita. Il flusso di note ha con il tempo smussato gli spigoli del sound di Ani DiFranco portando l’esuberanza e l’irruenza giovanile (sulla chitarra) a un più mite rapporto di coesistenza sonora con il mondo. Così Binary suona, e non potrebbe essere altrimenti, più soft e controllato, quasi a ritmo di un nu-soul alla Erykah Badu. Nel complesso l’album, ricco di partecipazioni di colleghi amici, procede senza fare una grinza ed è, forse, proprio questo preciso aspetto a lasciare al fan della prima ora (per intenderci uno di quelli del 1990) il palato un po’ asciutto: se in Pacifist’s Lament confesso almeno di ritrovarmi in parte, il resto della tracklist, lascia forte il rimpianto di quello che è stato. Non siamo neanche lontanamente vicini all’omonimo album d’esordio o al più recente, si fa per dire, e jazzato Canon. Senza farne una colpa ad Ani, la speranza è che la parentesi di introspezione adulta di Binary presto ceda nuovamente il passo ad un’anarchica volontà di urlare i propri sentimenti senza badare troppo alla forma. (Matteo Ceschi)
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TANIKA CHARLES, SOUL RUN, RECORD KICKS 2017

Album di debutto della canadese Tanika Charles, pubblicato dall’italianissima Record Kicks, Soul Run ci regala una quarantina di minuti di ottima musica splendidamente interpretata, guadagnandosi con questo una nomination come miglior album R&B/Soul ai Juno Awards (i Grammy canadesi). Sorta di “concept sentimentale”, il disco nasce dalla fine travagliata di una relazione ma ciò che racconta è soprattutto la ricostruzione e l’inizio di una nuova vita. La produzione, affidata ad un folto numero di personaggi fra cui spicca Slakah The Beatchild (noto per le collaborazioni con Drake), è molto intelligente e misurata nel mescolare le atmosfere calde e vintage del soul anni ’60 con una freschezza tutta moderna fatta di battiti hip-hop, cui si aggiunge tutta la contemporaneità dei testi delle canzoni, veri, schietti ed efficaci nell’avallare un forte punto di vista femminile sul mondo. Dopo una breve Intro che imposta la scena, Tanika infila subito un poker di canzoni da fare invidia all’artista più navigato: l’ipnotica title track, con uno sfoggio di doti canore piuttosto impressionante, la schietta ed energica Two Steps, pesantemente venata di Motown, i ritmi funky della bellissima Sweet Memories e la malinconica, dolente More than a man rimangono in mente ben oltre la loro durata e regalano lampi di meraviglia ed emozione. Si procede altrettanto bene, fra strizzate d’occhio a Lauryn Hill, Amy Winehouse e Stevie Wonder ed un songwriting particolarmente ispirato, con una serie di pezzi contagiosi (Money, Love Fool, Waiting), di breve durata e perlopiù uptempo, fino alla sorpresa finale, Darkness And The Dawn, brano interamente scritto da Tanika, che si discosta dai precedenti per la complessità di luci ed ombre che mette sul tavolo, e per la coda strumentale che sembra già preludere a nuovi sviluppi per la musica di Tanika Charles. Sviluppi che sicuramente terremo d’occhio. (Elisa Giovanatti)

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SAMPHA, PROCESS, YOUNG TURKS 2017

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Fra i terreni più fertili e innovativi degli ultimi anni, la black music (hip hop e r&b) è stata graziata di recente anche dal tocco di Sampha, artista londinese che prima di arrivare a questo suo primo LP ha prestato voce e talento ad alcuni dei più grandi ed interessanti nomi contemporanei, fra cui SBTRKT, FKA twigs, Drake, Kanye West, Frank Ocean e le sorelle Knowles (Beyoncé e Solange). Process racconta, fin dal titolo, come questo album sia il frutto di un lungo processo di costruzione, un percorso di maturazione musicale e, prima ancora, personale. Il lavoro ha una doppia faccia: colpisce per la straordinaria intimità di quel che racconta, la tribolata vicenda umana di Sampha (le dolorose perdite che ha dovuto affrontare, la faticosa costruzione di se stesso), con testi brutalmente sinceri e una voce capace di esprimere al meglio tutto il range delle emozioni, conferendo a Process una dimensione di rarissima intensità; l’aspetto puramente musicale, invece, sembra il frutto di un perfezionismo quasi ossessivo, in cui gli strumenti primari di Sampha (voce e pianoforte) sono affiancati da un fiorire di piccoli particolari tutti al posto giusto, studiati e pensati in ogni minimo dettaglio, per un raffinato mix di soul, r&b ed elettronica. Questo scrupolosissimo lavoro di composizione, però, non tocca minimamente l’atmosfera meditativa dell’album, nemmeno nelle sue tracce più movimentate (Blood on me, Kora sings, Timmy’s prayer), in cui si ha comunque la sensazione di essere nei pensieri, nelle paure e nelle tribolazioni dell’artista. Basta poi ascoltare pezzi come (No one knows me) Like the piano e sembrerà di essere da soli con Sampha al pianoforte, per sentirlo cadere, rialzarsi, avere paura, crescere, cercare di andare avanti. (Elisa Giovanatti)

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JANE J’S CLAN, STEP INTO THE GROOVE, AMMONIA RECORDS 2015

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Dopo l’ottimo esordio con Enough Is Enough torna una delle formazioni più danzerecce della nostra scena nazionale: parliamo del Jane J’s Clan, frizzante combo guidato dalla carismatica voce di Jane Jeresa, supportata da un trio con i fiocchi composto dal veterano Geno De Angelis (ex The Investigators, B.E.S.T., Tiratura Limitata), qui al basso elettrico, Stefano Di Niglio alla batteria e Gabriele Bernardi al piano e hammond. Niente chitarra dunque, ma in compenso il nuovo lavoro (Step Into The Groove) si avvale dei fiati dei SoulRockets di Olly Riva, una collaborazione preziosa e riuscitissima. Il risultato è un disco tutto da ballare, in cui il groove danzereccio e i ritmi infuocati sono sostenuti da un’esecuzione impeccabile da parte di tutti i membri della band. Si comincia con un omaggio agli anni ’70 e ai polizieschi nazionali, la strumentale La Banda Paradiso, e fra rivisitazioni (In The Basement, Baby Don’t You Weep e molte altre chicche) e pezzi originali si prosegue senza alcuna esitazione in un fiorire di sonorità retrò che, se è vero che non appartengono alla nostra cultura, sono ormai amatissime. Per gli appassionati di soul e funk, di Motown e blaxploitation, un disco imperdibile. E per tutti gli altri, un disco consigliatissimo. Meglio ancora, poi, andare a sentire uno degli irresistibili show dal vivo. (Elisa Giovanatti)

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PATRICK WATSON, LOVE SONGS FOR ROBOTS, SECRET CITY/DOMINO 2015

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Scusate il ritardo ma Love Songs For Robots, uscito lo scorso maggio, meritava un ascolto attento, perché, diciamolo subito, è un signor album. Continua per Watson e la sua band il percorso di esplorazione di sempre nuove soluzioni sonore, che qui assumono in ogni brano sfumature diverse, costantemente in bilico fra i generi (folk, rock, new-soul, psichedelia) e perennemente avvolte in un non so ché di evocativo, che qualche volta scivola in un’epicità mai eccessiva. E se il discorso può sembrare un po’ fumoso, basta la prima traccia per chiarire il concetto, una ballad dalla fascinosa melodia, ma con una carica di emozione da musica cinematica (e Patrick Watson in effetti è autore di numerose colonne sonore), o ancora In Circles, dialogo di synth e pianoforte dalle potenti derive atmosferiche e dilatate, da cui scaturisce poi Turn Into The Noise, raffinata miscela electro-jazz-blues che si rivela ben presto una delle perle dell’album. Complesso e straordinario il new-soul di Bollywood, che alla vocalità di Patrick Watson aggiunge molto di più dei soliti paragoni con Jeff Buckley (che pure è un ovvio riferimento, e guarda caso abbiamo in scaletta anche una Grace). Ricchissima di fascino e di spessore anche Hearts, inedita combinazione di ritmi afro e folk più tradizionale, lo stesso che ritroviamo, fra mille reminiscenze sixties, nella delicata Alone In This World. Places You Will Go chiude in bellezza un lavoro intimo, lirico, spesso notturno. Love Songs For Robots è una prova decisamente rilevante, cui le categorie canoniche in cui siamo soliti incasellare i generi musicali non rendono giustizia: meglio lasciarsi ispirare dal suo stesso titolo, molto più adatto a suggerire la varietà e l’innovatività dei linguaggi impiegati, ed ascoltarlo a ripetizione. Non vi stancherà. (Elisa Giovanatti)

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HIC SUNT LEONES, HIC SUNT LEONES, INNER ANIMAL RECORDINGS 2015

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Segnaliamo con piacere l’ottimo debutto degli Hic Sunt Leones per Inner Animal Recordings (etichetta indipendente e collettivo di band livornesi tra cui Bad Love Experience, Jackie o’s Farm, Mandrake): denominatore comune delle 5 tracce che compongono questo piacevolissimo EP è il gusto per le belle melodie pop combinato con un senso del ritmo e del groove che richiama sensibilità per il jazz e il soul. Un’elettronica discreta e molto morbida è il tappeto su cui si appoggiano le linee vocali calde, e qualche volta un po’ più aggressive, di Andrea Tempestini, al centro del progetto Hic Sunt Leones insieme al giovane polistrumentista Lorenzo Saini; elemento inconfondibile del loro sound è l’utilizzo dei fiati (Giacomo Fattorini alla tromba, Giulia Costagli al sax), ma è tutta la parte strumentale (segnaliamo anche la collaborazione di Riccardo Mazzoni) ad essere davvero preziosa, disinvolta nel passare da un genere all’altro, precisa nell’esecuzione. Ottima l’apertura con Zen Dance, con melodia soul, chitarra funky e fiati trascinanti; segue Agape, pezzo energico che entra sottopelle senza alcuna fatica; una decisa virata soul (Granny Lunchtime e Blowin’ Up The Pots) contraddistingue la parte centrale dell’Ep, che si chiude poi con Earthling, orientaleggiante, eterea, sognante. (Elisa Giovanatti)

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SHILPA RAY, LAST YEAR’S SAVAGE, NORTHERN SPY/AUDIOGLOBE 2015

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È in strane creature alla Shilpa Ray, cantautrice del New Jersey di base a Brooklyn, che anche nel 2015 il rock ritrova la sua ragion d’essere, e lo fa con un pugno nello stomaco e un ghigno sprezzante. Difficile restare immuni alla schiettezza disturbante e senza compromessi di Last Year’s Savage, album fatto di un blues-rock sporco, dall’anima punk e dalle molte sfumature soul, in cui le ossessioni della Ray – morte, sesso, auto-distruzione, tradimento – ci vengono buttate in faccia senza troppo preavviso, con un’urgenza viscerale, animale, trascinandoci in una spirale buia cui si sopravvive solo grazie al contemporaneo onnipresente sorriso sardonico dell’artista, uno humour beffardo e dissacrante che mitiga rabbia ed eccessi. Colpisce, in quasi tutte le tracce, la componente corporea, materica, così come la presenza – in senso fisico, appunto – della vocalità di Shilpa Ray, capace di graffiare, urlare, o insinuarsi sottopelle sensuale e malinconica (Burning Bride, per esempio), mentre l’inseparabile armonium indiano avvolge tutto in una nebbia spessa di ronzante e canzonatoria ironia. Difficile scegliere i brani migliori (forse Pop Song For Euthanasia, Johnny Thunders Fantasy Space Camp e Nocturnal Emissions) di questa grande prova, godetevi l’album dall’inizio alla fine. (Elisa Giovanatti)

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