Tag Archives: psichedelia

MOTHER ISLAND, WET MOON, GO DOWN RECORDS 2016

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Dopo l’ottimo esordio dello scorso anno i vicentini Mother Island tornano con Wet Moon, album dal suono caldo, avvolgente, registrato totalmente in analogico da Matt Bordin. Il risultato è più che convincente: il background psichedelico del gruppo si lascia qui invadere da sapori blues e soul, i primi particolarmente adatti ad evidenziare la vena malinconica e cupa che emerge in molti dei brani di questo Wet Moon (la bellissima Heroin sunrise, giusto per dirne uno), gli altri perfettamente udibili nella vocalità di Anita Formilan, voce graffiante, calda ed energica che ispira grandi paragoni. Con episodi di contagiosa immediatezza (On days like these) ed altri di enigmatica interpretazione (La danse macabre, un tuffo in abissi profondi), la proposta dei Mother Island è stratificata quanto basta per incontrare il favore di ascoltatori più o meno esigenti. Vi invitiamo a seguire la band dal vivo, promette davvero bene. (Elisa Giovanatti)

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GEMMA RAY, THE EXODUS SUITE, BRONZERAT RECORDS

 

Gemma Ray - Exodus Suite ARTWORK

The Exodus Suite è un disco fortemente influenzato dalla presenza di 8 mila rifugiati siriani ospitati nell’hangar sotto lo studio berlinese dove è stato registrato. Il clima cupo, dark, a volte ansiogeno di The Exodus Suite è intriso di attualità, ma anche di vita, di umanità. Ascoltarlo diventa così una vera e propria esperienza in cui immergersi, con chitarre distorte, organo, wurlizer che drammatizzano e allo stesso tempo rendono sensuale la musica scritta dalla cantautrice inglese che piace tanto a Nick Cave e Jimmy Page. L’approccio teatrale di Ifs & Buts, si alterna a brani come il surf There Must Be More Than This, più “leggera” musicalmente, ma dai contenuti sempre esistenziali; la progressive We Are All Wandering precede l’inquietante Acta Non Verba, traccia in cui Gemma emette solo degli inquietanti vocalizzi che sembrano arrivare da un mondo sovrannaturale, o l’ossessiva We Do War. Riverberi vocali e sonori (specialmente in Hail Animal), pause, lento incedere (Shimmering) dilatano all’infinito la continua sensazione di essere in bilico fra sensualità e morte. Psichedelia anni ’70, sintetizzatori claustrofobici (l’iniziale Come Caldera e la conclusiva Caldera, Caldera!), ballatone languide (molto bella The Original One), sono accompagnati dalla duttilissima voce di Gemma, che a tratti ricorda Patti Smith e in altri momenti Sinead O’ Connor, lo stile di una cantante degli anni ’60 e una modernissima artista dei nostri tempi. Da non perdere. (Katia Del Savio)

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VOLVER, OCTOPUS, AUTOPRODUZIONE 2016

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Volver come tornare, Volver come trasformarsi, Volver come il film di Pedro Almodóvar: è a queste suggestioni che si deve il nome della band varesina di Max Vita e soci, di cui segnaliamo con piacere questo primo lavoro. Album dall’affascinante sapore vintage ma di una freschezza tutta moderna, registrato in digitale ma poi lavorato con sperimentazioni analogiche, Octopus regala canzoni energiche, di sicuro impatto, nate dalla penna del succitato Max (cantante e chitarrista) con una matrice classic rock e blues, “sporcata” in un secondo momento – grazie al lavoro della band – da influenze di rock contemporaneo e psichedelia. Due le gemme del disco, Brother e Deepred, ma moltissimi gli spunti interessanti, disseminati in brani come Jackuait e Things I Need. Efficacissimi i piani effettati e i sinth, che danno il meglio nelle lunghe, frequenti digressioni strumentali, ora trascinanti, dirompenti, estrose, ora suggestive, evocative, cinematografiche, sempre di una bellezza sorprendente. (Elisa Giovanatti)

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THE CHANFRUGHEN, SHAH MAT, MOLECOLE PRODUZIONI 2016

The Chanfrughen 2 (foto Paola Pietronave)

Vengono dalla Liguria, da Andora per la precisione, un luogo che hanno deciso di trasformare nella loro personalissima New Orleans. I Chanfrughen – Alessandro Bacher, Gianluca Guardone, Andrea Risso— usano & abusano della ricca tradizione sonora degli anni Settanta dipingendo un’Italia che ha del fantastico se non fosse che tutto suona tra le loro mani maledettamente vero. Il disco, il secondo in carriera, è un limpido esempio di un certo tipo di rock contemporaneo che, pur abbeverandosi a un passato inevitabile, riesce ancora a parlare un linguaggio originale e sincero. Sostenuto dalla maschia ritmica di Andrea Risso, il power trio si esalta ad abbandonare scopi e intenzioni per accendere il fuoco di jam intrise di lampi psichedelici e di appiccicosi umori funk. Non mi credete? Provate a “iniettarvi” Parassiti e vi entreranno in circolo in una sola “botta” Stevie Wonder, i Quicksilver Messenger Service e i contemporanei Graveyard. Dire che aspettavo un album come Shah Mat – in persiano “il re è morto” – sarebbe piuttosto arrogante e pretenzioso da parte mia, mi limiterò, allora, ad annunciarvi, che i Chanfrughen sono ufficialmente entrati nella mia playlist personale e che, cosa non affatto trascurabile visto il mio orecchio molto esigente, Gianluca Guardone è per il sottoscritto la voce più interessante del 2016. L’anno non poteva iniziare meglio! (Matteo Ceschi)

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STEVEN LIPSTICKS AND HIS MAGIC BAND, AUTOPRODUZIONE 2015

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Come promesso, eccoci qui a segnalare uno dei più meritevoli artisti che hanno partecipato all’INDIANA MUSIC CONTEST 2014/15: si tratta di Stefano Rossetti, in arte Steven Lipsticks And His Magic Band, una one-man-band che già solo per il nome – un po’ ironica traduzione (nome e cognome) e un po’ affettuoso tributo (Captain Beefheart) – merita una citazione. E del resto il nome racchiude molto dell’attitudine di Stefano Rossetti e di quello che ritroviamo nella sua musica: il tocco leggero, l’approccio modesto, l’amore per la musica e i suoi grandi protagonisti, l’ironia garbata. In una parola, Steven Lipsticks And His Magic Band è puro. I suoi meriti, però, non finiscono qui: la chitarra dell’Intro e Riding The Tide sono un inizio azzeccatissimo, così come piccoli gioielli sono le successive Dec. 8th e Jar Of Poetry Revisited (che risentiamo alla fine, spogliata ed essenziale, come ghost track), tutti brani che dichiarano nettamente le loro fonti di ispirazione ma suonano al contempo molto personali, per la capacità di giocare coi generi, per l’efficacia delle melodie, per l’andamento un po’ svogliato e così sincero, di quella sincerità di approccio che sarebbe bello trovare molto più spesso. In un album realizzato in casa e quasi interamente suonato dallo stesso Steven/Stefano c’è spazio anche per i 7 minuti di Aliens Hypnotizing Me (Parts I, II and III), complessa architettura psichedelica che pure non perde in immediatezza, mentre l’attitudine lo-fi (parte integrante della sensazione di purezza che si sprigiona all’ascolto) non inficia la qualità sonora del tutto. Un ottimo inizio per un indipendente vero. (Elisa Giovanatti)

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DA CAPETOWN A INDIANA MUSIC MAG: ABBIAMO INCONTRATO I FIZZ POPS PER VOI

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Dodicesimo spumeggiante numero di INDIANA MUSIC MAGAZINE, che questa volta si spinge fino al Sudafrica per intervistare i Fizz Pops, interessantissima band che si esprime in un garage rock dalle spiccate sfumature pop-psichedeliche: la piacevole chiacchierata coi ragazzi passa in rassegna nuovo album, passioni musicali e cinematografiche, la scena musicale di Città del Capo e molto altro (English version of The Fizz Pops interview HERE, or click on the picture above to download the magazine). Da non perdere anche la ricca selezione di recensioni, con le scelte di questo mese ricadute su C+C=Maxigross, Erica Mou, Novalisi e Adriano Viterbini. Cliccate sulla copertina per il freedownload. Buona lettura!

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INDIANA PLAYLIST OTTOBRE

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Il prog elettronico dei Syne, la psichedelia dei The Yellow Traffic Light, la canzone di denuncia di Sananda Maitreya, l’alternative rock dei Deadweather (Jack White ed Alison Mosshart, ad esempio, vi dicono qualcosa?), il cantautorato limpido di Erica Mou, il blues strumentale di Stefano Meli, il superfunk del duo londinese Public Service Broadcasting, le atmosfere dense create dagli Editors, e quelle intimiste proposte dai canadesi Majical Cloudz, le immagine evocative di David Ragghianti o il punk rock dei Potty Mouth. Siete pronti per una nuova infornata di buona musica? Eccovi accontentati con l’INDIANA PLAYLIST di OTTOBRE!

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THE YELLOW TRAFFIC LIGHT, TO FADE AT DUSK, WE WERE NEVER BEEN BORING 2015

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Secondo Ep per i torinesi The Yellow Traffic Light, uscito per il collettivo We Were Never Been BoringTo Fade At Dusk regala un’interessante commistione di sogni psichedelici anni ’60 e shoegaze anni ’90. Molto curate le parti strumentali, con le chitarre molto riverberate a costruire scenari psichedelici su ritmiche decisamente post-punk, su cui si inserisce con buone melodie la voce di Jacopo Lanotte, sfacciata quanto basta. Unica eccezione in scaletta è Burger Shot, che per raccontare una storia di emarginazione razziale, alienazione e sconfitta adotta un sound duro e sporco. Più puliti, anche se non immuni da nervosismi, gli altri tre pezzi, a partire dall’iniziale e travolgente Hideaway fino alla lunga cavalcata Fall, che chiude in sfumato 20 ottimi minuti che ci fanno sperare di ritrovare presto all’opera il quartetto. Ma l’episodio più riuscito è forse il singolo Cole Drives Too Fast, che assimila alla perfezione i modelli anglosassoni e li restituisce in una prova di sicura qualità. (Elisa Giovanatti)

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THE STRANGE FLOWERS, PEARLS AT SWINE, AREA PIRATA 2015

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Perle ai porci. Sono quelle che gli Strange Flowers hanno distribuito in qualche decennio di carriera, forse senza trovare quello che sarebbe stato un giustissimo riconoscimento. Altre 11 perle arrivano con questo settimo album, magistrale riassunto del percorso della longeva band pisana, ma anche portatore di qualche novità, come il fondamentale ingresso nella line up di Giacomo Ferrari alle tastiere, che rinnova con molta sensibilità e senza scossoni le sonorità dei nostri. Amanti di pop beat, garage rock, psichedelia, Beatles, Neil Young, Pink Floyd, sixties e seventies, troveranno di che divertirsi fra queste 11 bellissime tracce: i vertici del disco si toccano con Watching The Clouds From A Strawberry Tree e la conclusiva, più dilatata, Twins, ma ben oltre la media sono davvero tutti i brani di Pearls At Swine, a cominciare da Alice Stealing Rainbows e Rose Lynn, che nella loro diversità sono entrambe gioielli di melodia e arrangiamenti. Un album vero, sincero, che risveglierà in voi ben più di un ricordo musicale. (Elisa Giovanatti)

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PATRICK WATSON, LOVE SONGS FOR ROBOTS, SECRET CITY/DOMINO 2015

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Scusate il ritardo ma Love Songs For Robots, uscito lo scorso maggio, meritava un ascolto attento, perché, diciamolo subito, è un signor album. Continua per Watson e la sua band il percorso di esplorazione di sempre nuove soluzioni sonore, che qui assumono in ogni brano sfumature diverse, costantemente in bilico fra i generi (folk, rock, new-soul, psichedelia) e perennemente avvolte in un non so ché di evocativo, che qualche volta scivola in un’epicità mai eccessiva. E se il discorso può sembrare un po’ fumoso, basta la prima traccia per chiarire il concetto, una ballad dalla fascinosa melodia, ma con una carica di emozione da musica cinematica (e Patrick Watson in effetti è autore di numerose colonne sonore), o ancora In Circles, dialogo di synth e pianoforte dalle potenti derive atmosferiche e dilatate, da cui scaturisce poi Turn Into The Noise, raffinata miscela electro-jazz-blues che si rivela ben presto una delle perle dell’album. Complesso e straordinario il new-soul di Bollywood, che alla vocalità di Patrick Watson aggiunge molto di più dei soliti paragoni con Jeff Buckley (che pure è un ovvio riferimento, e guarda caso abbiamo in scaletta anche una Grace). Ricchissima di fascino e di spessore anche Hearts, inedita combinazione di ritmi afro e folk più tradizionale, lo stesso che ritroviamo, fra mille reminiscenze sixties, nella delicata Alone In This World. Places You Will Go chiude in bellezza un lavoro intimo, lirico, spesso notturno. Love Songs For Robots è una prova decisamente rilevante, cui le categorie canoniche in cui siamo soliti incasellare i generi musicali non rendono giustizia: meglio lasciarsi ispirare dal suo stesso titolo, molto più adatto a suggerire la varietà e l’innovatività dei linguaggi impiegati, ed ascoltarlo a ripetizione. Non vi stancherà. (Elisa Giovanatti)

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