Tag Archives: shoegaze

NORTHWEST, I, TEMPEL ARTS 2018

Prima ancora della musica è notevole, nei Northwest, l’approccio alla musica stessa e all’arte tutta: il duo, nato alla fine del 2015 dal sodalizio fra Ignacio Simón (compositore, multi-strumentista e produttore) e Mariuca García-Lomas (visual artist, cantante e compositrice), è mosso infatti da un vero e proprio spirito d’avanguardia, un approccio sperimentale mai domo che si esprime in ogni aspetto del proprio lavoro e che non si esaurisce nella musica. C’è, evidentemente, molta elaborazione teorica, molta capacità di riflessione sul fare arte al giorno d’oggi (hanno pubblicato ben due manifesti, sul loro sito http://thisisnorthwest.com/, che vi consiglio di leggere in particolare per conoscere la singolare storia della distribuzione di I), e c’è anche un vero e proprio bisogno di esprimersi artisticamente: per questo il lavoro dei Northwest non si esaurisce nell’aspetto musicale, ma coinvolge anche le produzione di video studiati in ogni dettaglio e a loro volta ricchissimi di riferimenti di estrazione colta al cinema, all’arte, alla danza. Definire I un album di musica ambient sperimentale non rende giustizia alla varietà di sonorità che si svelano a poco a poco nel corso della scaletta, ma offre comunque un’idea di quale sia lo sfondo (talora enigmatico, inquietante, altre volte etereo, rilassante) dal quale di volta in volta si staccano dolci beat elettronici (Pyramid), tocchi leggeri di pianoforte o cangianti tappeti di archi. La strumentazione dell’album è infatti molto varia, come dimostra una traccia straordinaria come London, prima lenta e d’atmosfera, poi raffinatissima, poi montante e impetuosa, una cavalcata di 11 minuti, davvero un grandissimo pezzo. (Elisa Giovanatti)

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BROTHERS IN LAW, RAISE, WE WERE NEVER BEING BORING 2016

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Il disco di debutto dei pesaresi Brothers In Law, Hard Times For Dreamers, aveva rivelato alla scena internazionale – perché sì, se la sono conquistati subito, con tanto di partecipazione al SXSW di Austin, Texas – una band dal talento cristallino. Raise arriva dopo 3 anni e dopo l’ingresso in formazione di un quarto elemento, Lorenzo Musto, al basso, ad inseguire sonorità più piene, e conferma che i Brothers In Law sono una delle realtà più interessanti del panorama indie. Arrangiamenti più maturi e ragionati, e una maggiore varietà sonora (anche all’interno del singolo pezzo), contraddistinguono questi nuovi 8 brani, che si muovono con successo in una miscela stilistica di dream-pop, shoegaze e rock con un approccio più deciso rispetto al debutto, che non disdegna accelerazioni, riff potenti, esplosioni e puntate epiche (Oh, Sweet Song). All The Weight e Life Burns corrono, ariose; Middle Of Nowhere rallenta leggermente e si imprime in testa prepotentemente, come la successiva Through The Mirror; l’accoppiata finale (Leaves I e II) è un saggio della raggiunta maturità stilistica dei Brothers In Law. Eppure forse sono le tematiche dei brani quelle che rivelano la maggiore crescita della band: pur se tutti diversi, i pezzi alla fine lambiscono temi di fondo come lo scorrere ineluttabile del tempo, la condizione di precarietà dell’essere umano, con domande, dubbi e incertezze che non trovano risposta, ma anche la necessità di vivere appieno, di dare un senso al nostro percorso, o quantomeno cercarlo. Rimangono, alla fine, sensazioni dolceamare, sentimenti di nostalgia, incertezza, ma anche tanta speranza, con una positività di fondo che si fa strada fra mille asperità. Il tutto insieme, contemporaneamente, proprio come accade nella quotidiana lotta fra i nostri impulsi vitali e le difficoltà che ci si parano davanti. E questo fa di Raise, oltre a tutto il resto, un album molto sincero, che offre (e si offre) senza paura uno squarcio di vita in tutta la sua contraddittorietà. (Elisa Giovanatti)

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THE YELLOW TRAFFIC LIGHT, TO FADE AT DUSK, WE WERE NEVER BEEN BORING 2015

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Secondo Ep per i torinesi The Yellow Traffic Light, uscito per il collettivo We Were Never Been BoringTo Fade At Dusk regala un’interessante commistione di sogni psichedelici anni ’60 e shoegaze anni ’90. Molto curate le parti strumentali, con le chitarre molto riverberate a costruire scenari psichedelici su ritmiche decisamente post-punk, su cui si inserisce con buone melodie la voce di Jacopo Lanotte, sfacciata quanto basta. Unica eccezione in scaletta è Burger Shot, che per raccontare una storia di emarginazione razziale, alienazione e sconfitta adotta un sound duro e sporco. Più puliti, anche se non immuni da nervosismi, gli altri tre pezzi, a partire dall’iniziale e travolgente Hideaway fino alla lunga cavalcata Fall, che chiude in sfumato 20 ottimi minuti che ci fanno sperare di ritrovare presto all’opera il quartetto. Ma l’episodio più riuscito è forse il singolo Cole Drives Too Fast, che assimila alla perfezione i modelli anglosassoni e li restituisce in una prova di sicura qualità. (Elisa Giovanatti)

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BEACH HOUSE, DEPRESSION CHERRY, SUB POP/BELLA UNION 2015

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A 3 anni di distanza dal precedente disco, i Beach House tornano con un sottile rimescolamento delle carte in tavola: un lavoro certosino di sottrazione, per un deciso ritorno alla semplicità (arrangiamenti più scarni, drum-machine e non batteria, pochi strumenti, più leggerezza). A dispetto del titolo, Depression Cherry è nel complesso un album molto arioso, piacevole, che scorre leggero senza intoppi, nel solco di un dream-pop atmosferico che ha qui non pochi sconfinamenti nello shoegaze. Levitation e Sparks – primo singolo, nonché forse il brano migliore del disco, e certamente il più dinamico – sono un ottimo inizio e ci invitano a lasciarci trasportare sui tappeti di tastiere che pervadono l’album, avvolti dalla vocalità misuratissima e morbida di Victoria Legrand (e a tratti dello stesso Alex Scally); non cambia molto, poi, nelle successive 7 tracce, prevalentemente in tempo lento, con qualche sussulto solo nella conclusiva Days Of Candy. Tutto questo per dire che Depression Cherry non aggiunge nulla di nuovo, e l’entusiasmo con cui è stato accolto dalla critica è forse eccessivo, ma è sicuramente ben fatto, una conferma del solito alto livello della produzione del duo di Baltimora. Funziona, insomma, e non è poco. (Elisa Giovanatti)

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ARTISTI INDIE INSIEME PER IL NEPAL

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Oltre 60 artisti indipendenti dei più svariati Paesi e generi (in prevalenza shoegaze, new wave e rock), su iniziativa della statunitense Patetico Recordings, hanno unito le proprie forze per raccogliere fondi da destinare ai terremotati del Nepal: è nata così la compilation in 3 volumi Rock Back For Nepal, che gode del supporto di alcuni nomi di culto della scena indipendente shoegaze e rock, fra cui Dean Garcia (Curve, SPC ECO), Oliver Ackermann (A Place To Bury Strangers, Skywave), Alexx Kretov (Ummagma), Mark Joy (Lights That Change). Disponibile in Cd e digitale su Bandcamp e Amazon, la compilation vede anche la partecipazione di alcuni artisti italiani: Clustersun, Airrang, Stella Diana, Human Colonies, Novanta, Un-Reason.

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FINAL DAYS SOCIETY, ICEBREAKER, SOUNDPOLLUTION 2015

Icebreaker Cover

I Final Days Society non solo provengono dal sud della Svezia, la regione divenuta nota grazie agli sceneggiati del commissario Wallander, ma ognuno dei cinque membri vanta precedenti esperienze in altrettante band. Icebreaker, loro terza fatica, si presenta come un lavoro compatto e maturo pur mantenendo qualche lecita ingenuità che regala al disco un tocco sbarazzino ed estremamente fresco. La matrice pop si mischia con l’infinita gamma di possibilità che solo la musica elettronica e un suo uso fantasioso possono dare e con l’azzardo del post-rock. La musica dei Final Days Society ha bisogno dei suoi tempi, anche quelli lunghi – molti dei brani di Icebraker si spingono oltre i sei minuti – ma ciò non sembra minimamente incidere sulla resa finale. Il consiglio è di lasciarvi andare e di seguire mano a mano i suggerimenti che questa sorprendente, e da noi ancora sconosciuta, band saprà suggerirvi. Parola di indiano! (Matteo Ceschi)

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GENGAHR, A DREAM OUTSIDE, TRANSGRESSIVE 2015

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Album di debutto dei Gengahr – band di North London ancora semi sconosciuta in Italia, nonostante l’apertura della data milanese degli Alt-J lo scorso febbraio, ma già ottimamente accolta in patria – A Dream Outside ha un’apparenza che potrebbe ingannare: melodie psych-pop estremamente accattivanti, unite al falsetto di Felix Bushe, creano motivi in cui si vorrebbe sguazzare per ore, avvolti dalle chitarre effettatissime, note cariche di riverbero che creano ambienti sognanti e fantastici. La prima traccia, Dizzy Ghosts, chiarisce subito quale sia il sound dell’album, con una partenza lieve che sfuma man mano in sonorità più corpose e rock. Seguono, uno dietro l’altro, pezzi che più catchy non si può. Eppure, dicevamo, non c’è solo apparenza: l’atmosfera leggera e sbarazzina non cela del tutto testi a volte inquietanti, più spesso stranianti (popolati da streghe, creature marine, fantasmi, voglie vampiresche e sentimenti non sempre nobili), così come non nasconde piccole increspature del sound, brevi derive quasi noisy (Ember) e, soprattutto, anche molta sostanza. Difficile scegliere i brani migliori: forse Heroine e Lonely As A Shark, di ispirazione vagamente Radiohead, forse She’s A Witch e Bathed In Light, coi loro motivi orecchiabilissimi, ma anche la quasi strumentale Dark Star… Quel che è certo è che arrivati alla fine viene voglia di ricominciare. (Elisa Giovanatti)

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