Tag Archives: Sigur Ros

PILLOLE INDIANE, TRE DISCHI TUTTI DA ASCOLTARE

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Molte etichette, per la precisione cinque, si sono scomodate per produrre questo disco: In The Bottle Records, Shyrec, Indipendead, PoPe VRecords e la canadese Death Roots Syndacate. The Weak è l’album d’esordio di Lorenzo Mazzilli, qui sotto le mentite spoglie di The Giant Undertow, ma che in passato è già stato attivo in alcune band (come bassista di Daniel Payne, ad esempio, è andato in tour in giro per l’Europa). Il genere prescelto da The Giant/Lorenzo si muove fra l’alt-country e il folk (Neil Young è l’artista di riferimento), e la sua voce profonda e intensa (il “nostro” Johnny Cash) è assolutamente credibile in questo contesto sonoro, nonostante le documentate origini venete. Momenti aperti e selvaggi (Murder Cue, Lone) si alternano a fascinose ballate in cui perdersi o a brani più rock’n’ roll (The Batte of Wine). Captivity Waltz sorprende con i suoi continui cambi di ritmo, mentre In the Trees è una ballad con i piedi ben piantati nel country. “Play it loud, don’t forget to” Questo ce lo dice lo stesso Giant nel libretto del Cd. Obbediamo!

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Una voce che ricorda Thom Yorke ci accoglie in Hands, brano che dà il nome all’EP di Makai  (Dario Tatoli), producer, sound designer e polistrumentista che qui si lancia in sonorità elettroniche decisamente nordiche (i Sigur Ros vi dicono qualcosa?) che si fondono con una scrittura di stampo cantautorale. Il dream pop di Last Days si trasforma nel martellante loop di Missed, pezzo evanescente in cui è facile perdersi piacevolmente (già segnalato nell’Indiana Playlist di agosto). Summer è lentissimo, acquatico, completamente immerso nelle emozioni, mentre in Sofia, si parte e si conclude con quello che, se esistesse, potrebbe essere il suono del sole riflesso nel mare, ma nella parte centrale, con la preponderanza delle chitarre, si ha la sensazione di riemergere. Aspettiamo con curiosità il prossimo lavoro di Makai (qui uscito per l’etichetta More Letters Records).

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Un altro artista italiano da tenere d’occhio è Fabio Bliquo, autore (anche di colonne sonore) e musicista (suonava piano e chitarra nei Malaspina) che nel 2011 pubblicò il suo primo EP. Da poco è uscito Controsensi, album disponibile in freedownload su Soundcloud. “Volevo realizzare un album eclettico, che rappresentasse bene l’eterogeneità della mia visione musicale”, e Fabio ci è riuscito citando con stile i grandi della musica italiana: nel brano dal sapore battitesco (La lesione), o nel pop che a tratti ricorda lo stile canoro di Jannacci (Pagliacci), e ancora nell’l’elettro-pop anni ’80 (le martellanti Made in China e Trash song), o nella battistiana Provo a respirare. In tutto l’album si fa un massiccio uso dei synth, di ironia e di “surrealismo”: ascoltare Macchie per credere. Controsensi è un disco-giocattolo. Cosa combinerà Fabio Bliquo la prossima volta? (Katia Del Savio)

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YUKO, LONG SLEEVES CAUSE ACCIDENTS, UNDAY/AUDIOGLOBE 2014

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Arriva anche in Italia il terzo album dei belgi Yuko, band capitanata da Kristof Deneijs attualmente in tour nel nostro Paese. I ragazzi sono andati a scuola dai Radiohead e lo si sente ad ogni nota: certi gesti della chitarra, ancora di più la batteria (Karen Willems) – specie quando insiste, quasi meccanicamente, in un delicato sincopato sopra linee malinconiche – ricordano tantissimo In Raibows, mentre lo stile vocale di Kristof ibrida felicemente Jonsi Birgisson e Thom Yorke, e questi sono solo esempi per un disco che dall’inizio alla fine omaggia sinceramente i suoi maestri senza risultare mai stucchevole. Con qualche cambio di formazione, infatti, e soprattutto rimboccandosi le maniche – il titolo dell’album, a proposito, è l’avvertimento dato alle donne che durante la II Guerra Mondiale sostituirono i mariti nelle fabbriche – gli Yuko hanno trovato un loro sound affascinante e non catalogabile, raffinato, che sulle reminiscenze di un post-rock nordico (ancora i Sigur Ros, nella loro versione più atmosferica) e dell’esperienza Radiohead innesta melodie più smaccatamente pop e accessibili (While You Figure Things Out) più tutta una serie di elementi disparati ed apparentemente estranei, eppure tutti al posto giusto: barocchismi vari, inserti spiritual (Usually You Are Mine), persino una bellissima voce di soprano (Deborah Cachet) in un paio di tracce; esemplare A Couple Of Months On The Couch, che parte piano e cresce man mano con soprano, cori, fiati, riverbero, sonorità sempre più piene, eppure non ridondante, barocca ma non troppo, mette tutto al punto giusto, finché sul finire pian piano si spegne: semplicemente splendida, chiude come meglio non si poteva un album sorprendente. La copertina è opera del bravissimo illustratore londinese David Foldvari. (Elisa Giovanatti)

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ÓLÖF ARNALDS, PALME, ONE LITTLE INDIAN 2014

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Se da un lato ricorda certi arrangiamenti à la Mike Oldfield di fine anni Settanta, dall’altro il nuovo disco della cantautrice islandese Ólöf Arnalds mantiene una sua eterea consistenza che lo allontana da ogni paragone spingendo le composizioni verso un territorio inesplorato di confine dove la musica pare sposarsi con il panorama circostante come in un lungometraggio di Hayao Miyazaki. Il tutto viene reso con arrangiamenti che, seppure complessi, suonano all’orecchio meravigliosamente semplici e naturali. Nulla avrebbe potuto essere diverso a meno di non inficiare il risultato finale. Le otto tracce lasceranno chi si dovesse porre all’ascolto con un sentimento al tempo stesso di sorpresa e di familiarità per quello che si è trovato. Se pensavate che la musica islandese si riducesse alla sola Björk o ai Sigur Rós, è giunto il momento di ricredervi e iniziare un nuovo viaggio. (Matteo Ceschi)

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MOGWAI, YOUNG TEAM, CHEMIKAL UNDERGROUND 1997

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Epocale album di debutto degli scozzesi Mogwai – che prima avevano pubblicato qualche Ep – Young Team diviene ben presto uno dei dischi cardine degli anni ’90, capace di dar vita a un intero filone musicale (con influenze ancora oggi vive, fra Sigur Rós e Explosions In The Sky) e ponendo le basi per molto post-rock di fine millennio. Yes! I Am A Long Way From Home, sorta di prefigurazione di ciò che più tardi sarà Cody, apre il disco e introduce agli 11 minuti di Like Herod, manifesto stilistico di Stuart Braithwaite e soci: un inizio morbido conduce a una tensione montante nell’ombra, che proprio quando pare placarsi esplode in una sfuriata chitarristica che atterrisce; e così si prosegue nella seconda parte di un brano che rivela al mondo una band straordinaria nel costruire atmosfere da thriller, silenzi tesi e minacciosi, progressioni inquiete, muri di suono che si elevano improvvisi e ti schiacciano, ma altrettanto straordinaria nel regalare momenti eterei, struggenti, quando un pianoforte, una semplice melodia, dei pacati tocchi alle corde, aggiungono una intensissima profondità emozionale a questi visionari quadri musicali. Simili contrasti continuano nel resto del disco (Katrien, Summer, With Portfolio), dove i rari interventi vocali, a volte sotto forma di voci registrate o di un parlato quasi incomprensibile, funzionano spesso come semplici ulteriori elementi della stratificazione sonora. Il pianoforte di A Cheery Wave With Stranded Youngsters conduce poi al finale maestoso di Mogwai Fear Satan, l’altro apice dell’album: piuttosto che il gioco di contrasti, però, troviamo qui una progessione in cui, su una base ritmica ossessiva, lo stesso motivo di 3 note viene ripreso da basso e chitarre, con graduali livelli di distorsione; persino un flauto risuona sullo stesso motivo, ad aggiungere un inaspettato colore nelle pause fra una feroce esplosione e la successiva, fino a regalare la magia della lunga coda finale. Abbandonata qualsiasi velleità narrativa, i Mogwai offrono suggestioni, sogni, visioni, grazie a una capacità evocativa senza pari e a un perfetto equilibrio fra immediatezza e sperimentazione. (Elisa Giovanatti)

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