Tag Archives: Thom Yorke

INDIANA PLAYLIST ESTATE 2019

IndianaPlaylistEst19E’ arrivata l’Indiana Playlist dell’estate! Come sempre i Tre Piccoli Indiani vi propongono suggestioni sonore molto eterogenee, tutte da gustare. Veri e propri miti internazionali si mescolano a pilastri della scena indipendente italiana e ad artisti emergenti tutti da scoprire. Buon ascolto, be indie be free!

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PILLOLE INDIANE, TRE DISCHI TUTTI DA ASCOLTARE

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Molte etichette, per la precisione cinque, si sono scomodate per produrre questo disco: In The Bottle Records, Shyrec, Indipendead, PoPe VRecords e la canadese Death Roots Syndacate. The Weak è l’album d’esordio di Lorenzo Mazzilli, qui sotto le mentite spoglie di The Giant Undertow, ma che in passato è già stato attivo in alcune band (come bassista di Daniel Payne, ad esempio, è andato in tour in giro per l’Europa). Il genere prescelto da The Giant/Lorenzo si muove fra l’alt-country e il folk (Neil Young è l’artista di riferimento), e la sua voce profonda e intensa (il “nostro” Johnny Cash) è assolutamente credibile in questo contesto sonoro, nonostante le documentate origini venete. Momenti aperti e selvaggi (Murder Cue, Lone) si alternano a fascinose ballate in cui perdersi o a brani più rock’n’ roll (The Batte of Wine). Captivity Waltz sorprende con i suoi continui cambi di ritmo, mentre In the Trees è una ballad con i piedi ben piantati nel country. “Play it loud, don’t forget to” Questo ce lo dice lo stesso Giant nel libretto del Cd. Obbediamo!

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Una voce che ricorda Thom Yorke ci accoglie in Hands, brano che dà il nome all’EP di Makai  (Dario Tatoli), producer, sound designer e polistrumentista che qui si lancia in sonorità elettroniche decisamente nordiche (i Sigur Ros vi dicono qualcosa?) che si fondono con una scrittura di stampo cantautorale. Il dream pop di Last Days si trasforma nel martellante loop di Missed, pezzo evanescente in cui è facile perdersi piacevolmente (già segnalato nell’Indiana Playlist di agosto). Summer è lentissimo, acquatico, completamente immerso nelle emozioni, mentre in Sofia, si parte e si conclude con quello che, se esistesse, potrebbe essere il suono del sole riflesso nel mare, ma nella parte centrale, con la preponderanza delle chitarre, si ha la sensazione di riemergere. Aspettiamo con curiosità il prossimo lavoro di Makai (qui uscito per l’etichetta More Letters Records).

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Un altro artista italiano da tenere d’occhio è Fabio Bliquo, autore (anche di colonne sonore) e musicista (suonava piano e chitarra nei Malaspina) che nel 2011 pubblicò il suo primo EP. Da poco è uscito Controsensi, album disponibile in freedownload su Soundcloud. “Volevo realizzare un album eclettico, che rappresentasse bene l’eterogeneità della mia visione musicale”, e Fabio ci è riuscito citando con stile i grandi della musica italiana: nel brano dal sapore battitesco (La lesione), o nel pop che a tratti ricorda lo stile canoro di Jannacci (Pagliacci), e ancora nell’l’elettro-pop anni ’80 (le martellanti Made in China e Trash song), o nella battistiana Provo a respirare. In tutto l’album si fa un massiccio uso dei synth, di ironia e di “surrealismo”: ascoltare Macchie per credere. Controsensi è un disco-giocattolo. Cosa combinerà Fabio Bliquo la prossima volta? (Katia Del Savio)

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NAP EYES, THOUGHT ROCK FISH SCALE, PARADISE OF BACHELORS 2016

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Ha detto bene Stuart Berman su Pitchfork: se la vostra serata-tipo si svolge sul divano, a leggere un articolo su iPad con la televisione accesa sullo sfondo, mentre le conversazioni su smartphone proseguono senza tregua, allora questo disco potrebbe essere un primo passo nella vostra riabilitazione dal sovraccarico di informazioni. Canadesi di Halifax, Nuova Scozia, i Nap Eyes sono guidati dal frontman e paroliere Nigel Chapman, narratore-incantatore a dir poco intrigante che, per cominciare (Mixer), ci conduce per mano a una festa: nemmeno il tempo di entrare, però, che subito scatta la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato, mentre siamo – rasenti al muro – osservatori degli altri e di noi stessi, soli tra la folla. Inizia così, con un gran senso di solitudine, il percorso di ricerca di identità che attraversa i 35 minuti scarsi di questo Thought Rock Fish Scale, cammino che passa in rassegna sogni e disillusioni, deliri e frustrazioni di vite galleggianti in una condizione di auto-inganno. Ed è proprio qui che la forza del disco colpisce come uno schiaffo: i testi asciutti, diretti, spogli, penetranti come raramente accade, privi di qualsiasi retorica, colpiscono al cuore, “feroci” nella purezza della visione, fulmini a ciel sereno in una società incentrata sulla distrazione di massa. Al cuore, per la maggior parte dell’album, di strutture basilari, le parole risaltano, circondate da una musica rilassata, sonnolenta, pigra: “idiot, slow down” invocava Thom Yorke quasi 20 anni fa in un capolavoro di rappresentazione dell’alienazione (OK Computer), perché la lentezza è una forma di difesa e un atto rivoluzionario nell’iperattività e ipervelocità della vita contemporanea. I Nap Eyes non solo rallentano, ma abbassano il volume e si sbarazzano di tutto quel sovraccarico di effetti e post-produzione oggi così in voga, mantenendo dall’inizio alla fine un profilo basso, il registro contemplativo del pensare tra sé e sé e il tono confidenziale dell’incisione casalinga (l’album è registrato in presa diretta, senza sovra incisioni). Le soluzioni musicali cambiano verso metà disco con Alaskan Shake e Click Clack, più complesse, imprevedibili, e mentre un flusso di coscienza intreccia presente, passato e futuro sentiamo un profondo senso di connessione, in barba alla mancanza di logica narrativa. Sarà anche per quelle continue ripetizioni (“my old great great great great great grandmother mother mother mother mother…”), specie di mantra per un Chapman alla ricerca di se stesso, con un lessico così nudo da farsi a volte enigmatico, allegorico o mistico. “Won’t you trust trust trust me, c’mon…”, si chiude così il disco. Io non lo so se mi fido, intanto lo riascolto, perché non ho ancora decifrato tutto di Thought Rock Fish Scale, lavoro ricchissimo in abito casual. (Elisa Giovanatti)

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YUKO, LONG SLEEVES CAUSE ACCIDENTS, UNDAY/AUDIOGLOBE 2014

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Arriva anche in Italia il terzo album dei belgi Yuko, band capitanata da Kristof Deneijs attualmente in tour nel nostro Paese. I ragazzi sono andati a scuola dai Radiohead e lo si sente ad ogni nota: certi gesti della chitarra, ancora di più la batteria (Karen Willems) – specie quando insiste, quasi meccanicamente, in un delicato sincopato sopra linee malinconiche – ricordano tantissimo In Raibows, mentre lo stile vocale di Kristof ibrida felicemente Jonsi Birgisson e Thom Yorke, e questi sono solo esempi per un disco che dall’inizio alla fine omaggia sinceramente i suoi maestri senza risultare mai stucchevole. Con qualche cambio di formazione, infatti, e soprattutto rimboccandosi le maniche – il titolo dell’album, a proposito, è l’avvertimento dato alle donne che durante la II Guerra Mondiale sostituirono i mariti nelle fabbriche – gli Yuko hanno trovato un loro sound affascinante e non catalogabile, raffinato, che sulle reminiscenze di un post-rock nordico (ancora i Sigur Ros, nella loro versione più atmosferica) e dell’esperienza Radiohead innesta melodie più smaccatamente pop e accessibili (While You Figure Things Out) più tutta una serie di elementi disparati ed apparentemente estranei, eppure tutti al posto giusto: barocchismi vari, inserti spiritual (Usually You Are Mine), persino una bellissima voce di soprano (Deborah Cachet) in un paio di tracce; esemplare A Couple Of Months On The Couch, che parte piano e cresce man mano con soprano, cori, fiati, riverbero, sonorità sempre più piene, eppure non ridondante, barocca ma non troppo, mette tutto al punto giusto, finché sul finire pian piano si spegne: semplicemente splendida, chiude come meglio non si poteva un album sorprendente. La copertina è opera del bravissimo illustratore londinese David Foldvari. (Elisa Giovanatti)

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