ELEPHANT STONE: L’IMPORTANZA DI ESSERE ANCORA PSICHEDELICI

Senza rinunciare mai alle melodie e a canzoni ben scritte, i québécois Elephant Stone (quindici anni di carriera alle spalle e sei album all’attivo) fanno tappa a Milano nel corso della loro tournée Europe per ricordare al pubblico di appassionati accorsi all’Arci Bellezza quanto ancora abbia da dire il libro del rock psichedelico. Il quartetto di Montreal partendo dall’India, paese dei genitori del frontman Rishi Dhir, si apre a divagazioni soniche capaci di abbracciare nell’arco del live show sia i Byrds più orientaleggianti così come l’estro imprevedibile di Syd Barrett e dei Jefferson Airplane. Il mood tipicamente Sixties dell’impianto dei brani non nasconde nulla allo spettatore che viene così accolto dal suono evocativo del sitar di Dhir, seduto a gambe incrociate su una pedana ammantata da un lussureggiante tappeto. È l’inizio del viaggio: tra potenti momenti di rock e suggerimenti pop delicati à la Norwegian Wood l’esibizione decolla ricordandoci l’importanza di essere ancora oggi psichedelici per aprirsi ad esperienze capaci di rischiarire l’orizzonte fisico e temporale di un presente angusto e per niente rassicurante. Gli Elephant Stone non solo riescono in questa missione con naturalezza ma paiono trarre giovamento nell’assistere all’epifania psichedelica che si consuma fraternamente ai piedi del piccolo e accogliente palco della Palestra Visconti. Eredi di un passato sonico alquanto loquace e in vena di confidenze, i quattro di Montreal accettano di buon grado il ruolo di “Psych Masters” e continuano a dipingere con le note la loro visone psichedelica della contemporaneità. (Text and frames: Matteo Ceschi)

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JOE VALERIANO, SKETCHES FROM MY SOUL, 2024

Dieci canzoni intrise di un’anima da menestrello blues e sospese tra Tom Petty e gli album solisti di Eddie Vedder. È questo il cuore dell’ultimo capitolo sonoro del bluesman Joe Valeriano, un capitolo che guarda certo al rock d’autore ma che non perde mai quel blues primo dichiarato amore dell’artista. A cominciare dalla delicata american ballad intitolata Dancing with the Wind l’ascoltatore ha la netta impressione che Valeriano questa volta più di altre in passato voglia mettersi a nudo e mostrare le bozze, sketches, del suo profondissimo sentimento nei confronti delle musiche che lo ha fatto crescere come uomo nei decenni. La pasta melodica del brano è fatta per viaggiare e allontanarsi dalle inquietudini e dai nodi del quotidiano con la voce di Joe pronta a suggerire quanto gli è stato appena rivelato dal vento tra una nota e l’altra. Ancora Petty nel brano tradizionale My Name Is Sal a fare da nume tutelare per un lavoro da cui sarà difficile staccarsi e per cui varrà sempre la pena fermarsi: a lato di una highway soleggiata così come nella penombra del proprio saluto. Sketches from My Soul trabocca di una generosità vocale e musicale oggi rara da scovare e ci insegna come dopo anni di navigazione nell’agitato mare sonico esistano ancora luoghi sconosciuti per cui vale davvero la pena e la fatica del viaggio. Voto: 9… il 10 lo teniamo per il prossimo album. (Matteo Ceschi

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C’MON TIGRE: PER IL SEMPLICE FATTO DI FARLO

Il disco si apre con un brano, Goodbye Reality, che ha un intro che suona molto come una dichiarazione d’intenti: richiami alle marche jazz di New Orleans mi verrebbe da dire, il tropicalismo e persino le colonne sonore di James Bond. Cosa mi sono perso per strada e soprattutto dove conduce la strada dell’album Habitat?

Beh, direi che sei sulla strada giusta, perché alla fine l’interpretazione è di chi ascolta, non trovi? In realtà poi nessuno di questi riferimenti è nelle nostre corde, sicuramente l’aspetto cinematico, però, ci appartiene. Forse, però, hai colto l’inconscio di quello che è l’ispirazione indiretta del brano. Abbiamo, senz’ombra di dubbio, molto d’inconscio che ci portiamo dietro nella scrittura per cui probabilmente New Orleans che tu citavi sta in un angolo. Ed escono quindi delle cose, degli aspetti se vogliamo, che in Goodbye Reality sono semplicemente più marginali di altri. Al tropicalismo sicuramente guardiamo: Chico Buarque con la sua Construção è un riferimento di scrittura per Goodbye Reality.

A proposito di tropicalismo e tropicalia. La musica brasiliana dei Sixties aveva una forte connotazione politica e di protesta anche se spesso all’apparenza non sembrava così. Ascoltando la canzone Nomad at Home si intuisce che il melting pot ritmico che vi contraddistingue talvolta possa arrivare a sostenere numerose storie di umanità allo sbando. Quanto per voi la musica può e deve essere veicolo di messaggi sociali?

È vero. Noi abbiamo attraversato diverse fasi e siamo stati sempre un po’ lontani dal lanciare dei messaggi. Raccontavamo semplicemente delle storie. Fin quando con il terzo album abbiamo incontrato il fotografo e fotoreporter Paolo Pellegrin [con cui il gruppo ha collaborato nel 2022 a un’edizione speciale di Scenario, N.d.A.]. A quel punto ci siamo chiesti se fosse arrivato il momento di farlo o no e ci siamo detti che era in effetti giusto andare in quella direzione. Ora veicoliamo delle idee e dei concetti sociali attraverso la nostra musica. Se vuoi la nostra musica sociale è poco costruita e più spontanea, se vogliamo metterla così. Più sociale che politico, il messaggio, ma in questo momento ci interessa farlo. Sarebbe impossibile non farlo d’altronde.

Come parlando dei vostri lavori non citare per assonanza e filosofia la Real World di Peter Gabriel che ha esaltato il concetto di contaminazione lanciando anche dei potenti messaggi politici. Se pensiamo a certe produzioni dell’etichetta anche la sola scelta di collaborare con un musicista piuttosto che utilizzare degli strumenti etnici poteva di per sé già lanciare dei precisi messaggi.

Il concetto di mescolanza laddove non ci sono confini è già una scelta politica. Per noi è un attitudine naturale non c’è un pensiero dietro. Non c’è in realtà un pensiero che abbia dietro un concetto politico. Lo diventa, diventa tutto politico per il semplice fatto di farlo. Procede tutto così in maniera naturale.

The Baptist: come nasce la collaborazione con Sean Kuti?

Abbiamo semplicemente condiviso una data con lui a Bologna e l’idea di collaborare nasce spontaneamente perché fin dall’inizio l’ispirazione che ci è venuta dalla musica africana è stata forte sia che si trattasse dell’afro beat che del jazz etiope di Mulatu Astatke. Condividere con Sean questa esperienza quindi è stato qualcosa di molto forte perché poi, alla fine, se uno ci fa caso, ogni collaborazione ha i suoi lati buoni e le sue difficoltà proprio perché ti rapporti con una persona diversa da te ed entri necessariamente in un’intimità che richiede per forza un confronto. Nel caso di Sean tutto è stato fatto in presenza per cui può immaginare l’intensità della situazione.

Habitat è stato registrato a Bologna, vostra base operativa. Il capoluogo emiliano mi pare difendersi assai bene come epicentro della musica fin dagli anni Settanta con Dalla e poi con il punk e poi ancora, negli anni Ottanta e Novanta, con le posse. Cosa c’è in città da renderla Bologna sempre centrale nella musica italiana?

Forse questa accade perché Bologna mantiene un equilibrio tra dinamismo e realtà locale. A Bologna accadono molte cose e tutto viene vissuto all’italiana. Non è una questione di grandezza della città, è una quesitone di attitudine della città stessa. Citavi l’epoca delle posse: Milano era molto stilosa, una sorta di East Coast italiana, penso a gruppi come gli OTR; Roma era la parte politica con gli Assalti frontali; a Bologna c’erano i Sanguemisto che rappresentavano un binario trasversale di ricerca e sperimentazione non legato alla politica ma comunque si faceva politica, il tutto veniva però fatto mantenendo una libertà di pensiero che era uno stare sopra le parti. A Bologna transitano un sacco di giovani che vengono a studiare e quindi si mantiene una sorta di spirito leggero di ricerca che non si confronta tanto con la politica, per quanto Bologna rimanga una città fortemente cosciente. Ma, a ben vedere, neanche con la parte lavorativa questi giovani prendono contatto perché una volta terminati gli studi andranno tutti fuori a lavorare. Quindi nella musica non c’è quella pressione dettata dal confronto. Bologna è un po’ staccata da tutto. A Bologna, parliamoci chiaro, nessuno ti punta addosso i riflettori. A Bologna ci vai per lavorare bene, tutto qui.

Dal punto di vista visivo/visual l’album, e in più generale l’opera dei C’mon Tigre, è davvero ricchissimo. Quanto le vostre composizioni procedono per immagini e quanto le stesse immagini si conciliano con il caleidoscopio di ritmi che producete?

Allora, Il rapporto con la fotografia… beh, la fotografia è uno dei collanti che ci tiene agganciati a quello che è visivo. Abbiamo iniziato questo discorso con la fotografia un po’ nascondendoci nelle “sporcature” dell’illustrazione e della pittura e mantenendo un atteggiamento leggermente più schivo. Con il confronto con il reale. con l’immagine fotografata, sei per forza in contatto con quello che succede. In un certo senso la fotografia è entrata dentro nel nostro mondo artistico con questo libro che ha pescato immagini dall’archivio di Paolo Pellegrin, un fotografo con alle spalle trent’anni di attività. Lavorare con lui per noi è stato un onore pazzesco. Per quanto riguarda le nostre copertine [realizzate da Son of Ilio, N.d.A.], la grafica dei nostri album ha seguito uno studio iniziale che in qualche modo ha definito un’immagine che faceva suonare la nostra musica in maniera migliore. È stata anche una ricerca fortunata, diciamo così, che ha definito talmente tanto bene questo rapporto tra musica e immagine che non siamo più riusciti a distaccarcene nel corso dei dischi nonostante ci siano stati dei momenti in cui abbiamo seriamente pensato e cercato di cambiare. Ormai è un rapporto imprescindibile quello che si è formato. L’unico tentativo che abbiamo provato a fare con Habitat è un processo di sottrazione che ci ha portato a togliere dal centro della scena la nostra tigre iconica. L’idea, comunque la si giri, è sempre quella di legare i due media, il sonoro e il visivo. (Text and pictures, Matteo Ceschi)

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FRANK SALIS & JAMES ANDREWS, MAC, NICOLASOUND 2024

In occasione della recente uscita di MAC (NicolaSound Rec. 2024), disco del compositore e musicista svizzero Frank Salis e del trombettista e cantante di New Orleans James Andrews dedicato alla memoria di Dr. John, Indiana Music Magazine si è regalata la possibilità di scambiare quattro chiacchiere a Lugano con i due artisti per farsi raccontare com’è nato il progetto che vede in cabina di regia il produttore e manager elvetico Nicoals Gilliet.

MAC, un titolo che richiama subito alla memoria il nome di Dr. John, figura di spicco della Crescent City. Di chi è stata l’idea, tua o di James? Forse c’entra qualcosa con un messaggio lasciato da Dr. John in segreteria a James?

FRANK SALIS: Credo che alla base l’idea è stata mia e ne ho parlato a Nicolas, che ha subito preso la palla al balzo per vedere se James fosse interessato.
James era un grande amico di Dr. John, e suonavano spesso insieme. Il primo disco di James è stato prodotto da Allen Toussaint e nel disco compariva Dr. John. Toussaint e Dr. John avevano preso James sotto la loro ala. Per di più nel disco abbiamo inserito un messaggio che John aveva lasciato nella segreteria telefonica di James.

JAMES ANDREWS: Si tratta di un messaggio privato. Un omaggio a Mac. Abbiamo voluto sentire la sua presenza, abbiamo voluto che facesse parte di questo progetto. Gli sarebbe piaciuto moltissimo, ne sono sicuro. Abbiamo fatto la canzone con tutto il rispetto possibile per lui, per la sua famiglia e per tutti coloro che lo hanno amato per davvero e con tenerezza.

Anche questo nuovo album si presenta come un lavoro fortemente corale. Quali sono state le collaborazioni, non solo musicali, che hanno permesso a MAC di vedere la luce?

FRANK SALIS: Beh ci sono tante persone che hanno permesso a questo disco di esistere. A cominciare da Nicolas Gilliet, che aveva creato il mio incontro con James e che ha tutte le conoscenze che servono a New Orleans. Poi ci sono i musicisti: Shannon Powell, soprannominato King of Treme, che è IL suono della batteria New Orleans. Roland Guerin al basso, che è stato il direttore artistico di Dr. John e Allen Toussaint. C’é Troy Andrews, il fratello di James, più conosciuto come Trombone Shorty che ci ha aiutato mettendo a disposizione lo studio e suonando la batteria e le percussioni per un brano. Mi ha anche dato dei consigli nel corso dello sviluppo dello brano. Una persona umilissima… non me lo aspettavo. Poi c’è anche Josh Harmon, che si trovava in quei giorni in città ed è venuto a fare il corista per un brano. Per chi non lo conoscesse, Josh fa sound design con le percussioni con dei filmati di cartoni animati. É molto seguito su Instagram e probabilmente molte persone lo hanno già potuto apprezzare. C’è Craig Klein al trombone. Ce ne sono tantissimi altri… Potrei parlare per ore…

Parlando della produzione del disco, quanto è stato importante il contributo in regia di Paul Schoen ai Buckjump Studio per mettere insieme tutti i mezzi che sarebbero andati a completare l’affresco sonoro di MAC?

FRANK SALIS: Per fortuna c’era Paulie!!! Lui è metà italiano e mi ha aiutato tantissimo per l’indicazione ai musicisti. Paulie poi è bravissimo a capire cosa voglio, praticamente gli ho detto di fare “come lo sentiva lui”, e il risultato finale è bellissimo.

Come verrà accolto MAC a New Orleans? Ad un primo attento ascolto pare ci siano tutti gli elementi perché diventi un classico.

JAMES ANDREWS: Davvero bene perché le canzoni fondono musiche e ritmi diversi e riflettono la vera e genuina cultura di New Orleans. Sia le canzoni tradizionaliste i i nuovi brani come Clap Your Hands or It’s Gonna Be Great. Poi c’è I Got Mine, la canzone scritta da mio nonno Jessie Hill:
per me significa portare avanti la sua eredità e allo stesso tempo portare avanti anche l’eredità della città di New Orleans!

E l’idea della copertina del disco? È come se fosse in corso un passaggio di testimone.

FRANK SALIS: La copertina è di Matteo Ceschi! Secondo me una genialità uscita dal suo cervello perennemente in cerca di idee. L’immagine si porta a tante letture, una di queste sicuramente è il passaggio di qualche cosa. Io direi più un passaggio di cultura che un passaggio di testimone.

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HOLBROOK, ALIENS, 2023

Anticipato dal video dalle atmosfere a tratti allucinate e post-realiste di Nari Nari, brano che sembra strizzare l’occhio da una parte a Damon Albarn e dall’altro ai classici dei Depeche Mode, esce il nuovo EP dei francesi Holbrook.
Quattro brani per ribadire nel mondo post-pandemico che c’è ancora molto bisogno di musica e occasioni di incontro. Lontani dalla polvere del tempo capace solo di incattivire le persone al bistrot, il trio di multi-strumentisti parigini si agita tra un post-punk morbido e sapienti escursioni indie rock spingendo lo sguardo curioso dell’arte verso gli spazi in ombra della contemporaneità. Borders e Fantasy, il più interessante momento del lavoro con i suoi passaggi narrativi-ritmici, esplicano al meglio questa volontà di abbandonare convenzioni e mode e di suonare sinceramente e decisamente pop(ular). Lo sguardo acuto degli Holbrook è al tempo stesso umano e alieno – ecco una possibile spiegazione del titolo – nella speranza di recuperare e rivalutare quello che nel frattempo è sfuggito per noia e disattenzione alle persone. La già citata alternanza di mood ritmici e la “veste canora” camaleontica di Ali Chafik segnano il successo di un lavoro che non mostra mai segni di stanchezza, anzi, si presenta come un incentivo alla creatività per tutti quelli che si mettessero all’ascolto o volessero salire su un palco per fare musica. (Matteo Ceschi)

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OUT OF THE BLUE, PIRATE QUEENS, LOW COOST RECORDS, 2023

Elizabeth Swann, Carina Barbossa, Angelica Teach, Anamaria… Non solo Jack Sparrow, quindi. Se nella fortunata serie hollywoodiana Pirati dei Caraibi, la presenza femminile svolge un ruolo importante nella narrazione, ancor di più lo è nell’album d’esordio degli Out of the Blue intitolato Pirate Queens. Il disco nato da un’idea del polistumentista, compositore, produttore e arrangiatore Giovanni Pollastri e della cantante newyorkese (trapianta in Italia) Annie Saltzman Pini, infatti, esplora in musica le gesta e le scorribande di famose donne pirata. Abbracciata la via degli oceani e quella di una vita fuori legge, le signore cantate da Giovanni e Annie spiccano – a cominciare dall’irlandese Anne Bonny, protagonista dell’omonimo singolo – per le loro vulcaniche personalità e nulla invidiano ai colleghi maschi che terrorizzavano i mari. Anne Bonny, la open track, una sorta di biglietto da vista per il duo, accoglie l’ascoltatore con reminiscenze irish imponendosi con il suo “fluttuante” e a tratti epico folk rock. Lady Mary Killgrew, dedicata alla “piratessa” inglese del XVI secolo, invece, sembra volere fare incontrare in mezzo al Mare dei Sargassi Suzanne Vega e Patti Smith. Sadie Farrell – al momento nessuna parentela risulta con il cantante dei Jane’s Addiction – è il brano che, per i suoi “spruzzi” di blues psichedelico, potrebbe essere perfetto per il prossimo episodio di Pirati die Caraibi. A Hollywood c’è qualcuno in ascolto? Nel complesso, il lavoro di Giovanni Pollastri e Annie Saltzman Pini suona arrembante e coraggioso in ogni suo momento. A chi si mette all’ascolto non resta che capire se, tra le tracce di Pirate Queens, siano nascosti indizi per l’isola del tesoro. (Matteo Ceschi)

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THE THREE BLIND MICE, DAY’S GETTING DARK, BELUGA RECORDS 2022-23

Milanesi con una vocazione spiccatamente europea. E si sente! I The Three Blind Mice allacciano ancora più stretti i loro legami con l’Europa che conta musicalmente, quella del Nord, quella delle idee e del coraggio discografico. Day’s Getting Dark, capitolo “svedese” (il lavoro esce per la Beluga Records di Stoccolma) della band, propone un “sound persuasivo in cinemascope” che proietta un western à la Rodriguez alle latitudini più fredde con l’intento dichiarato di sciogliere il fronte della musica mainstream. E se i pistoleri mariachi si fossero spinti fino alla tranquilla Scandinavia? Ascoltando traccia dopo traccia se ne ha la quasi certezza, datemi retta. Winter e Come Home escono dalle nebbie e fanno un inchino a Jim Jarmusch e Nick Cave lanciando un preciso monito a quanti si avvolgono nel comfort della coperta delle convenzioni: <Cari, l’inverno si farà ancora più rigido e il vostro cencio non vi proteggerà dalla bufera sonica in arrivo!>.  Tra una raffica e l’altra, la band guidata da Manuele Scalia trova un pizzico di pietà bowieniana con l’acida ballad In Cold Blood… Della serie… <Non facciamo prigionieri – non chiedetecelo, per favore – ma non siamo spietati come ci dipingete!> BANG! BANG! BANG! (Matteo Ceschi)     

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CERCANDO DI RESISTERE AI TEMPI: GIORGIO CICCARELLI TRA ROCK, ELETTRONICA E FUMETTI D’AUTORE

Negli ultimi anni hai cominciato ad esplorare con i tuoi lavori anche la musica elettronica senza, però, mai abbandonare le tue radici rock. Niente demoni e dei, uscito per La Siepe Dischi nel  2021 è certamente un buon esempio di questo connubio mai scontato. Come sei arrivato a coniugare i due mondi, quello del rock da cui provieni e quello, appunto, dell’elettronica a cui approdi?

Sono sempre stato un ascoltatore curioso della musica elettronica, ma l’ho sempre sentita distante anni luce dal mio modo di vivere la musica, di trasmetterla, non sono mai riuscito a capirla fino in fondo e mi sono nutrito di cose che in qualche modo andavano a toccare il mio di mondo, per cui ho amato il primo disco dei Suicide, i New Order e certa scena post punk, senza dimenticare gli italianissimi Weimar Gesang… Ma come musicista, compositore, non mi sono mai avvicinato a “quegli” strumenti per una sorta di timore reverenziale e non li ho mai piazzati nei miei dischi. All’alba dei 50 anni qualcosa ha iniziato a cambiare ed il merito va a due artisti che apprezzo da decenni e che mi hanno spinto a vedere l’elettronica da un altro punto di vista ed in qualche modo mi hanno incoraggiato a percorrere quel sentiero fatto di sistemi binari, sto parlando di Mark Lanegan (R.I.P.) e Nick Cave. I loro ultimi dischi mi hanno fatto capire che c’è un mondo intenso, emotivo ed emozionante dietro quegli strumenti solo apparentemente freddi. Da lì ho iniziato ad esplorare e mi si è aperto un universo diverso, fatto di Moderat, The Blaze, Justice, Chet Faker e su tutti, la mia preferita, FKA TWIGS.

Mi pare di ricordare – sono pronto a una smentita – che l’appena citato Niente demoni e dei, con la copertina di Milo Manara, non sia il primo caso che ti vede collaborare con esponenti del mondo della fumetto.

Tutto è iniziato con la mia collaborazione con Tito Faraci (sceneggiatore di fumetti tra i più importanti in Italia, scrittore di romanzi, nonché mio amico) alla realizzazione della scrittura dei testi del primo disco, Le cose cambiano, dopodiché la collaborazione si è saldata a tal punto che negli ultimi due dischi è diventato ufficialmente l’autore unico dei testi delle mie canzoni. Bazzicando il mondo del fumetto, Tito, mi ha catapultato in quell’universo per me fino ad allora popolato solo dai disegni di Andrea Pazienza, Milo Manara, Max Bunker, Magnus, Jacovitti ecc…, insomma cose un po’ datate. Non capacitandomi della mia ignoranza riguardante il “moderno” campo fumettistico, mi ci sono fiondato dentro.

Cosa la musica può ricevere dalle arti figurative e cosa, a sua volta, può restituire al mondo dei disegni e dei disegnatori?

Musica e disegni sono due mondi con parecchie cose in comune: suggeriscono, aprono finestre per fantasticare o per seguire i pensieri uno dopo l’altro. Unendoli, questo meccanismo che è intrinseco nella musica e nell’arte visiva, si potenzia e si arricchisce. La musica può ricevere dalle arti figurative una nuova dimensione visiva e narrativa, mentre il fumetto può ricevere dalla musica una dimensione sonora e emozionale supplementare.

Non mi pento con quell’attacco “assassino” – Non morirò il lunedì al mattino/anche se sembra sempre di più il mio destino Il giorno dopo l’ultimo giorno e Non basta squarciano le fantasie dell’ascoltatore all’inizio del lato B del LP. Una tripletta di intenti e ipotesi soniche che mettono alla prova i riflessi dell’ascoltatore, una vera rarità nell’attuale panorama musicale italiano. Quali suggestioni hai seguito per costruire questi tre mondi sonori?

Mi fa davvero molto piacere che ti siano piaciute, di solito, il secondo lato di un LP o, se si tratta di un CD, la quinta/sesta traccia, è il momento più critico dell’intero lavoro, si decide se andare avanti o se se ne è avuto abbastanza. La composizione della scaletta del disco ha un’importanza fondamentale, t’impegna come la realizzazione di una canzone, insomma il concepimento della scaletta di un disco è un arte… In particolare, i tre pezzi che citi sono sfaccettature di un unico intento, un intento che in realtà è l’obiettivo di tutto il lavoro. Volevamo fare un disco molto compatto, con una visione chiara e facilmente leggibile sia a livello musicale che a livello testuale, un tuffo nella decadenza new wave degli anni ’80 più scuri…

Musica e società: secondo te quale può essere oggi l’apporto concreto delle canzoni per ritrovare e risollevare una socialità quasi azzerata dall’indifferenza, dall’odio, da ritmi frenetici e, non dimentichiamolo, dal miraggio sociale dei social network? La musica, penso che tu possa condividere il mio punto di vista, è una pura esperienza di condivisione. Lo è stata nel passato, a cominciare dai Sixties con numerose protest songs e ha continuato ad esserlo nei decenni successivi.

Sono d’accordo con te, la musica può avere un ruolo importante nell’aiutare a ricostruire la socialità e a combattere l’indifferenza, l’odio e i ritmi frenetici della vita moderna. Attraverso la condivisione di esperienze ed emozioni comuni, la musica può creare un senso di comunità e connessione tra le persone. Tutti concetti e parole meravigliose, ma se non esistono i luoghi dove condividere, rimangono solo le belle parole, i bei concetti. In Italia non ci sono più i locali dove suonare! O, se ci sono, si sono ridotti a poche presenze, questo è il vero e reale problema attuale; ormai per gli artisti cosiddetti “minori” come il sottoscritto, i posti dove proporre la propria musica sono i bar, i ristoranti e via dicendo…

Tra i vari problemi che affliggono la contemporaneità sicuramente c’è la questione ambientale, una tematica che ha cominciato a interessare artisti già dal secondo dopoguerra e che continua, in varie forme, a vedere coinvolti i musicisti. Moby, tornando alla musica elettronica, è un convinto ambientalista nonché un dichiarato vegano. Qual è la tua posizione a riguardo?

Sono vegetariano dal 1990, ho svezzato i miei tre figli a suon di verdure, tofu, seytan e lenticchie, tra le proteste di nonne e pediatri. Ho una macchina a gas da anni, da prima che il green diventasse di moda e non ho MAI votato PD. Mi sembra di avere una posizione molto chiara…

Il mondo della musica e la professione del musicista come sono cambiati dopo la pandemia e il lockdown?

Il mondo della musica in cui mi muovo io è stato quasi completamente spazzato via dalla pandemia. Un po’ come per i piccoli negozi, strozzati dai lockdown prolungati, dalle grandi catene e da Amazon, anche noi “piccoli” musicisti ci siamo trovati quasi costretti a chiudere baracca e burattini… Molti dei locali dove suonavamo hanno chiuso, molti di quelli che sono rimasti aperti si sono riconvertiti puntando sul cibo e non se la sentono di rischiare una serata che non necessariamente andrà bene in termini di presenze. Oggi io suono molto più di prima in posti piccoli, piccolissimi. Potrebbe essere l’inizio di una nuova tendenza in stile americano che ci porterà ad avere in ogni bar un palco e una band o un musicista che suona? Non so, sono poco ottimista sull’umanità in genere e temo che finiremo per suonare facendo da contorno alla gente che mangia seduta ai tavoli suscitando in loro più fastidio che altro…

(Matteo Ceschi)

– Un ringraziamento speciale a Dischi Volanti per avere ospitato lo shooting fotografico –

TOUR 2023

18/2, Molo517, Schio (VI)

9/3, Cinema Sala Frau, Spoleto

10/3, Il Barroccio, Lecce

11/3 Caffè letterario, Barletta

24/3, Manhattan, Vitulazio (CS)

25/3 Caffè 24, Gioia del Colle (BA)

15/4, Drunk in Public, Morrovalle (MC)

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JESTOFUNK, CAN WE LIVE, IRMA RECORDS/REC IN PAUSE/SELF 2021-22

Un brano che ha fatto la storia della musica (non solo house) internazionale,  un brano che ancora oggi ad anni di distanza si mantiene fresco e attuale sia nella sua forma originale che nei nuovi remix. Un brano a cui tutti dovrebbero fare riferimento quando si apprestano a parlare di successi discografici.

Can We Live dei Jestofunk (con il featuring di Ce Ce Rogers) torna in vinile sugli scaffali dei negozi di dischi – una lode a quelli, numerosi, che resistono lungo tutto lo stivale – grazie alla storica Irma Records e alla Rec In Pause, l’etichetta di Francesco “Checco” Farias, uno dei membri fondatori del gruppo.

Inutile girarci intorno, Can We Live possiede quel pizzico di atmosfera dark à la John Carpenter che continua a dare all’ascoltatore un senso di thrilling che gli permette di assaporare il gusto del proibito senza correre rischi. La profondità delle basse della traccia, un tocco che ha fatto scuola in giro per il mondo negli ultimi decenni, si mantiene potente e ipnotica anche nel remix Mandrillapella, tanto da spingere l’atmosfera da club nella direzione di una liturgia laica e aggregante: il  DJ officia un rito collettivo dalle profondità della notte dispensando ai clubbers scarne ostie ritmiche. Più morbido ma non per questo conciliante, il Soul Chemistry Mix. La volontà del ritmo sia fatta! Andate e portate a casa nuove e rinnovate pulsioni! (Matteo Ceschi)

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GAZE OF LISA, SINONIMI CONTRARI, TERZO MILLENNIO REC. 2021

Sono presenti nel disco – e ciò è un bene, a mio modesto e musicale parere – gli anni Ottanta troppo spesso bistrattati e frettolosamente dimenticati. Bilancia che cita i CCCP è un’esplosione di ricordi che aiuta l’ascoltatore a ritrovare una propria profondità storica capace di tenerlo a galla nel presente. Dei tardi Eighties c’è sicuramente la spavalderia creativa ma un posto speciale in Sinonimi contrari se lo ritagliano un rock à la Bluevertigo e un’elettronica dal DNA assolutamente aggregante e a tratti visionaria (parte del merito al produttore  Valerio Gaffurini). Consci di muoversi su una costruzione sonica ben solida, i Gaze of Lisa azzardano anche escursioni in prossimità del metal con Io contro. Un esordio, quello della band di Matera, che dovrebbe lasciare tutti stupiti per come si è palesato alle nostre orecchie e che potrebbe farci riconciliare per un po’ con la Musica. (Matteo Ceschi)

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