Il disco si apre con un brano, Goodbye Reality, che ha un intro che suona molto come una dichiarazione d’intenti: richiami alle marche jazz di New Orleans mi verrebbe da dire, il tropicalismo e persino le colonne sonore di James Bond. Cosa mi sono perso per strada e soprattutto dove conduce la strada dell’album Habitat?
Beh, direi che sei sulla strada giusta, perché alla fine l’interpretazione è di chi ascolta, non trovi? In realtà poi nessuno di questi riferimenti è nelle nostre corde, sicuramente l’aspetto cinematico, però, ci appartiene. Forse, però, hai colto l’inconscio di quello che è l’ispirazione indiretta del brano. Abbiamo, senz’ombra di dubbio, molto d’inconscio che ci portiamo dietro nella scrittura per cui probabilmente New Orleans che tu citavi sta in un angolo. Ed escono quindi delle cose, degli aspetti se vogliamo, che in Goodbye Reality sono semplicemente più marginali di altri. Al tropicalismo sicuramente guardiamo: Chico Buarque con la sua Construção è un riferimento di scrittura per Goodbye Reality.
A proposito di tropicalismo e tropicalia. La musica brasiliana dei Sixties aveva una forte connotazione politica e di protesta anche se spesso all’apparenza non sembrava così. Ascoltando la canzone Nomad at Home si intuisce che il melting pot ritmico che vi contraddistingue talvolta possa arrivare a sostenere numerose storie di umanità allo sbando. Quanto per voi la musica può e deve essere veicolo di messaggi sociali?
È vero. Noi abbiamo attraversato diverse fasi e siamo stati sempre un po’ lontani dal lanciare dei messaggi. Raccontavamo semplicemente delle storie. Fin quando con il terzo album abbiamo incontrato il fotografo e fotoreporter Paolo Pellegrin [con cui il gruppo ha collaborato nel 2022 a un’edizione speciale di Scenario, N.d.A.]. A quel punto ci siamo chiesti se fosse arrivato il momento di farlo o no e ci siamo detti che era in effetti giusto andare in quella direzione. Ora veicoliamo delle idee e dei concetti sociali attraverso la nostra musica. Se vuoi la nostra musica sociale è poco costruita e più spontanea, se vogliamo metterla così. Più sociale che politico, il messaggio, ma in questo momento ci interessa farlo. Sarebbe impossibile non farlo d’altronde.
Come parlando dei vostri lavori non citare per assonanza e filosofia la Real World di Peter Gabriel che ha esaltato il concetto di contaminazione lanciando anche dei potenti messaggi politici. Se pensiamo a certe produzioni dell’etichetta anche la sola scelta di collaborare con un musicista piuttosto che utilizzare degli strumenti etnici poteva di per sé già lanciare dei precisi messaggi.
Il concetto di mescolanza laddove non ci sono confini è già una scelta politica. Per noi è un attitudine naturale non c’è un pensiero dietro. Non c’è in realtà un pensiero che abbia dietro un concetto politico. Lo diventa, diventa tutto politico per il semplice fatto di farlo. Procede tutto così in maniera naturale.
The Baptist: come nasce la collaborazione con Sean Kuti?
Abbiamo semplicemente condiviso una data con lui a Bologna e l’idea di collaborare nasce spontaneamente perché fin dall’inizio l’ispirazione che ci è venuta dalla musica africana è stata forte sia che si trattasse dell’afro beat che del jazz etiope di Mulatu Astatke. Condividere con Sean questa esperienza quindi è stato qualcosa di molto forte perché poi, alla fine, se uno ci fa caso, ogni collaborazione ha i suoi lati buoni e le sue difficoltà proprio perché ti rapporti con una persona diversa da te ed entri necessariamente in un’intimità che richiede per forza un confronto. Nel caso di Sean tutto è stato fatto in presenza per cui può immaginare l’intensità della situazione.
Habitat è stato registrato a Bologna, vostra base operativa. Il capoluogo emiliano mi pare difendersi assai bene come epicentro della musica fin dagli anni Settanta con Dalla e poi con il punk e poi ancora, negli anni Ottanta e Novanta, con le posse. Cosa c’è in città da renderla Bologna sempre centrale nella musica italiana?
Forse questa accade perché Bologna mantiene un equilibrio tra dinamismo e realtà locale. A Bologna accadono molte cose e tutto viene vissuto all’italiana. Non è una questione di grandezza della città, è una quesitone di attitudine della città stessa. Citavi l’epoca delle posse: Milano era molto stilosa, una sorta di East Coast italiana, penso a gruppi come gli OTR; Roma era la parte politica con gli Assalti frontali; a Bologna c’erano i Sanguemisto che rappresentavano un binario trasversale di ricerca e sperimentazione non legato alla politica ma comunque si faceva politica, il tutto veniva però fatto mantenendo una libertà di pensiero che era uno stare sopra le parti. A Bologna transitano un sacco di giovani che vengono a studiare e quindi si mantiene una sorta di spirito leggero di ricerca che non si confronta tanto con la politica, per quanto Bologna rimanga una città fortemente cosciente. Ma, a ben vedere, neanche con la parte lavorativa questi giovani prendono contatto perché una volta terminati gli studi andranno tutti fuori a lavorare. Quindi nella musica non c’è quella pressione dettata dal confronto. Bologna è un po’ staccata da tutto. A Bologna, parliamoci chiaro, nessuno ti punta addosso i riflettori. A Bologna ci vai per lavorare bene, tutto qui.
Dal punto di vista visivo/visual l’album, e in più generale l’opera dei C’mon Tigre, è davvero ricchissimo. Quanto le vostre composizioni procedono per immagini e quanto le stesse immagini si conciliano con il caleidoscopio di ritmi che producete?
Allora, Il rapporto con la fotografia… beh, la fotografia è uno dei collanti che ci tiene agganciati a quello che è visivo. Abbiamo iniziato questo discorso con la fotografia un po’ nascondendoci nelle “sporcature” dell’illustrazione e della pittura e mantenendo un atteggiamento leggermente più schivo. Con il confronto con il reale. con l’immagine fotografata, sei per forza in contatto con quello che succede. In un certo senso la fotografia è entrata dentro nel nostro mondo artistico con questo libro che ha pescato immagini dall’archivio di Paolo Pellegrin, un fotografo con alle spalle trent’anni di attività. Lavorare con lui per noi è stato un onore pazzesco. Per quanto riguarda le nostre copertine [realizzate da Son of Ilio, N.d.A.], la grafica dei nostri album ha seguito uno studio iniziale che in qualche modo ha definito un’immagine che faceva suonare la nostra musica in maniera migliore. È stata anche una ricerca fortunata, diciamo così, che ha definito talmente tanto bene questo rapporto tra musica e immagine che non siamo più riusciti a distaccarcene nel corso dei dischi nonostante ci siano stati dei momenti in cui abbiamo seriamente pensato e cercato di cambiare. Ormai è un rapporto imprescindibile quello che si è formato. L’unico tentativo che abbiamo provato a fare con Habitat è un processo di sottrazione che ci ha portato a togliere dal centro della scena la nostra tigre iconica. L’idea, comunque la si giri, è sempre quella di legare i due media, il sonoro e il visivo. (Text and pictures, Matteo Ceschi)